Come ve lo immaginate l'arrivo in una megalopoli indiana con più di 15 milioni di abitanti?
E poi una strada lunga 30 km, larga sei corsie che ne incrocia altre altrettanto grandi, tutte costeggiate da baracche semibuie fatte di legno, cartone e altri materiali di scarto e punteggiate da lucine fioche fioche? Ed esseri umani, tanti, tanti, che camminano al buio lungo i bordi, o stanno seduti su muretti, o accovacciati per terra a cucinare, a mangiare o a fare chissà che? E fiumi di macchine a passo d'uomo, e motorini e biciclette e risciò, e poi camion, autobus e pedoni, tutti insieme, ognuno a intersecare il percorso degli altri, ognuno a conquistarsi qualche metro lungo la sua strada? E tutti che suonano il clacson come per annunciare di esserci anche loro, e chi non ha il clacson urla?
Bene. Nessun assalto dei tassisti. Siamo andate noi a cercare in un parcheggio buio quello che ci era stato assegnato allo sportello dei taxi prepagati.
Ma il resto c'era tutto.
E qualora ve lo stiate chiedendo, sì, c'erano anche un carretto trainato dal bue e un contadino che portava la sua vacca al guinzaglio.
Il tassista era un ragazzo azzimato, e per tutto il tragitto, durato 2 ore, non ci ha rivolto una parola nè uno sguardo; ogni tanto apriva lo sportello ed educatamente sputava fuori, come facevano tutti gli altri automobilisti e pedoni.
Per due ore non siamo riuscite a fare altro che guardare fuori dal finestrino, con gli occhi sbarrati, incapaci di scambiarci due parole. Ognuna sperando che quel viaggio finisse presto. Ognuna sperando che il ragazzo per bene non svoltasse in una strada buia di una di quelle baraccopoli che stavamo attraversando. Ogni tanto lungo la strada, ricompariva qualche lampione, qualche insegna commerciale e noi speravamo di essere finalmente arrivate in città, la città vera. Ma poi ricominciavano le baracche e la folla e l'illusione svaniva. Quando il tassista ci ha finalmente annunciato che eravamo a Colaba, il quartiere più turistico, quello con gli alberghi, avevamo appena superato l'ennesimo slum.
Nei due giorni seguenti, quello che abbiamo visto nel centro della città più moderna dell'India, ha confermato la prima impressione di miseria. Per le strade, ad ogni angolo, persone, soprattutto uomini, pochissime donne, molti affaccendati e moltissimi a non fare niente. L'aria è calda e appiccicosa d'umidità. Gli odori aspri si mescolano allo smog.
In molti angoli, gruppi familiari letteralmente "buttati" per strada, sdraiati, seduti, non a mendicare, sembra che vivano lì; intorno traffico frenetico, assordante. Rari i turisti. Gli edifici del centro, anche il più importante museo della città, sono molto malandati, con una patina di vecchio e di sporco; per le strade cumuli di terra, mattoni e calcinacci lasciano immaginare cantieri e lavori in corso, se non fosse che è tutto abbandonato e non si vedono operai.
Andremo via da qui senza aver visto le altre zone della città, senza avere avuto voglia di andare a curiosare negli altri quartieri.
E' la prima volta che ci succede da quando siamo partite.
venerdì 28 marzo 2008
Mumbai
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mercoledì 26 marzo 2008
Hong Kong
Per due giorni siamo state immerse nella foschia.
La città colpisce innanzitutto per la sua struttura: grandi arterie autrostradali cittadine che si intersecano su più livelli, una fitta rete di ponti e passerelle pedonali, che entrano ed escono dai primi piani dei grattacieli e dei decadenti palazzoni residenziali che spesso stanno dietro la facciata degli uffici di lusso.
Abbiamo scoperto con piacere di aver incluso una tappa cinese in questo viaggio, non l'avevamo mica capito. La folla, la lingua, le insegne, il cibo, tutto è cinese. Tutto è da osservare con curiosità. Dopo le settimane australiane, ne abbiamo proprio voglia.
L'immagine da cartolina della città è questa: grattacieli su una baia frastagliata, giochi di luci e modernità.
Ma c'è una sola parola che descrive davvero la città: merce. La merce è dappertutto: nei numerosi e scintillanti centri commerciali, e negli angusti e soffocanti corridoi dei Computer Center fatti di tanti minuscoli box strapieni di qualunque prodotto tecnologico, nelle vie dei quartieri più popolari, nei vicoli decorati da lanterne rosse, nei mercati alimentari, nei palazzi, nelle strade. In alcune zone i venditori vengono a cercarti per strada e semplicemente ti chiedono "Cosa stai cercando?". Perché qui sembra che si possa solo vendere o comprare; non si può stare, camminare, curiosare. Sembra che qui tutti si occupino solo di merce. Ce n'è tanta, ce n'è troppa, c'è tutta quella prodotta dall'intero pianeta a prezzi che fanno sembrare ogni acquisto un affare.
Ne siamo uscite ubriacate, stomacate e, sotto la pressione dei desideri indotti, non siamo riuscite a comprare niente.
Abbiamo pensato spesso a Rapa Nui e siamo state contente di ripartire.
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giovedì 20 marzo 2008
Non dappertutto
Dopo il nostro ultimo post, quello su Uluru e la sua magia, abbiamo sentito solo il silenzio.
Vista da lontano l'Italia sembra un paese con poco futuro davanti. Dall'emisfero sud sembriamo tutti spenti, scontenti e dannatamente sfiduciati. In questo viaggio abbiamo sentito che non è così dappertutto, verrebbe da dire che non è così da nessuna parte.
Forte, fortissimo è il contrasto tra ciò che voi vedete ogni giorno, e quello che abbiamo negli occhi noi.
Qui grandi problemi sociali non ne abbiamo visti. Qui gli operai del cantiere di fronte al nostro albergo lavorano tranquilli, protetti, imbragati, caschetto e scarpe giuste. Qui a Cairns pochi giorni fa hanno eletto il nuovo sindaco e noi non ce ne eravamo neanche accorte, vale a dire: niente manifesti elettorali selvaggi, niente volantini, nè santini, niente faccioni 3x6. Lo abbiamo letto il giorno dopo sul giornale: la nuova sindaca (l'aspetto è molto diverso da quello della Moratti) ha brindato e ha ricevuto gli auguri dell'avversario sconfitto che ora torna alla sua professione in una corporation. Sembra un altro pianeta.
Ma quello che davvero stride è l'abisso che c'è tra la bellezza del paesaggio, l'attenzione che in questa parte dell'Australia hanno nel preservare le ricchezze naturali, e gli scempi che in Italia si compiono da decenni. Qui gli ambientalisti fanno le battaglie per educare le persone a non buttare in spiaggia i mozziconi di sigaretta perché i pesci li scambiano per cibo e si fanno male. Non c'è bisogno di aggiungere altro.
Della nostra tappa a Cairns per vedere la barriera corallina, va detto che, dopo una pioggia tropicale durata alcuni giorni, siamo riuscite a vederla. Certo, il mare era mosso e il cielo era grigio, e solo quando compariva il sole la vita sott'acqua si riaccendeva di colori. Certo, mentre eravamo sulla piattaforma in mezzo al mare, da cui ci si cala in acqua, è arrivato lo scroscione di pioggia, certo abbiamo dovuto indossare la muta anti-meduse perché questa è la loro stagione, ma abbiamo comunque fatto il possibile per non perderci anche questa meraviglia. Ce ne siamo fatte un'idea e abbiamo capito perché in tanti se ne innamorano.
Questa volta le foto sono davvero poche ma, nella speranza di risollevarvi un po' il morale, vi consigliamo di non perdervi le bab in muta.
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giovedì 13 marzo 2008
Ha ragione Pier
Non si può parlare (male) dell'Australia senza aver visto Uluru.
E' come se anche i nativi avessero avuto, fin da tempi antichi, una visione "dall'alto" del loro immenso territorio e lo avessero raccontato, prima con incisioni rupestri e pitture corporali, e poi con le rappresentazioni artistiche più moderne.
Siamo atterrate su una terra rossa con sfumature incerte tra il viola e l'arancio. La ventata di aria bollente che ci ha tolto il fiato, e il nugolo di mosche implacabili, ci hanno subito confermato che eravamo arrivate proprio in uno dei deserti visti dall'alto.
Abbiamo noleggiato una macchina e, superato lo shock della guida a sinistra, siamo andate a Yulara. Yulara non è un paese, è una specie di resort con alberghi e ristoranti. E' stata costruita nel niente, proprio per accogliere i turisti in prossimità del sito più visitato d'Australia.
Della roccia non è facile dire qualcosa oltre quello che si vede. Sembra un enorme animale addormentato. Aspetti quasi che si sollevi e si scrolli di dosso il sottile strato roccioso che i milioni di anni hanno depositato. Nei giorni in cui siamo state a Uluru siamo solo riuscite a chiamarla "la creatura".
Nel Parco Nazionale Uluru-Kata Tjuta (l'altro massiccio roccioso caratterizzata da forme tonde, bello ma meno magico) c'è un Centro Culturale molto ben fatto e gestito dagli Anangu in cooperazione con il Governo Centrale, in cui viene raccontata la cultura della popolazione locale, il loro modo di sopravvivere nel deserto e le storie sacre di Uluru.
Ma non c'è bisogno di nessuna spiegazione sulla sacralità del luogo. E' sufficiente constatare la potenza magnetica che ha su di te. Non riesci a staccargli gli occhi di dosso (e neanche la macchina fotografica). E quando non lo puoi vedere, la sua presenza ineludibile finisce per calamitare anche i pensieri.
"La creatura", quasi a confermare di essere viva, cambia colore ogni momento: dall'arancio abbagliante dell'alba, al rosso mattone del tramonto, passando per il viola bluastro delle ore roventi. Vorresti star lì tutto il giorno a guardarla mutare. Ma il calore secco finisce per avere la meglio e ti impone delle pause.
Uluru ci ha sorprese e turbate, e ha confermato la nostra impressione: l'Australia, prima degli europei, doveva essere un posto magico e incantato. Ora che abbiamo visto battere il suo cuore rosso ne siamo certe.
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domenica 9 marzo 2008
Ngarrangkarni
In queste settimane abbiamo provato a volere un po' bene all'Australia.
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Etichette: Australia

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