Siamo a Milano da 3 giorni; i nostri corpi sono qui. La nostra anima, se ne abbiamo una, no.
In aeroporto ci aspettavano Barbara, Raffaele e Jacopo. Si può dire che i fratelli, uno in Grecia, l'altro a Milano, non vedevano l'ora di rivederci. E rivederli è stato bello.
Il Fans Club di Segrate, come aveva minacciato, è venuto a salutarci a casa lunedì pomeriggio. Ci hanno fatto chiamare in portieria dove abbiamo trovato il nocciolo duro del gruppo che sventolava bandierine di benvenuto in tutte le lingue dei paesi che abbiamo attraversato. Per raggiungerle e abbracciarle abbiamo dovuto percorrere un tappeto rosso con le tappe del nostro viaggio. Loro, intanto, intonavano la colonna sonora di "Momenti di gloria". Avremmo voluto tornar su a prendere le valigie e simulare un nuovo arrivo; se lo meritavano. Ci dispiace per tutti gli altri, ma noi ci siamo divertite molto, così crediamo la portinaia, resa partecipe della burla, e qualche condomino che si è trovato a passare di lì.
Le sensazioni del ritorno sono molteplici e tuttora in corso. Abbiamo ritrovato la casa come l'abbiamo lasciata, in più c'erano i pacchi spediti dai vari paesi e un grande cumulo di posta arretrata. Muoversi, ritrovare le cose, per Anto, è stato un fatto meccanico; il corpo aveva memoria e si muoveva quasi automaticamente. Felix, invece, ha fatto più fatica a ritrovare gesti, luoghi, oggetti. Entrambe ci siamo sentite un po' disadattate, abbiamo parlato poco tra noi, come due che siano qui solo a fare un lavoro, disfare le valigie e sbrigare qualche faccenda, prima di ripartire. Come se la casa, come se questa vita, la nostra di prima, che durante il viaggio chiamavamo "l'altra vita", fosse davvero di qualcun altro.
Dopo aver vissuto così a lungo con gli stessi pochi indumenti e i pochi oggetti indispensabili, aprire l'armadio e le ante della cucina, posare gli occhi sulle librerie, è stato uno shock. Il senso di nausea e l'opprimente sensazione di superfluo che abbiamo provato ci hanno dato la misura di un cambiamento, lento e profondo, che questo viaggio ha esercitato su di noi. La gran quantità di oggetti che affolla la nostra, come tutte le case, ora che ci siamo abituate a vivere con poche cose, ci sembra più una zavorra che un privilegio. L'abitudine al nomadismo, fatta di dettagli e piccole cose, ci rende ora un po' estranee alle noi stesse che eravamo.
Il viaggio.
Il viaggio è stato bellissimo. Non ci siamo mai stancate, ci siamo divertite e lo rifaremmo, anche subito. Non sappiamo dirvi quale sia stato il luogo più bello, il tramonto più indimenticabile, la faccia più emozionante. Ogni posto è se stesso ed è bello per questo. Una sensazione è emersa con più forza nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni: la terra ha una sua propria forza che prescinde l'azione umana, ed è una forza vitale. Viene voglia di conoscerla sempre di più e di rispettarla, con deferenza, come facevano, e tuttora fanno, gli aborigeni australiani.
Il blog.
Si conclude qui. E' stato una sorpresa anche per noi. Alla partenza non sapevamo quando e quanto saremmo riuscite a scrivere. L'intenzione era quella di condividere un'esperienza, che speravamo interessante, con le persone amiche. Sembra che ci siamo riuscite e ne siamo contente e orgogliose. La vivacità dei commenti, però, non ce la aspettavamo neanche noi. E' stata una sorpresa e ha reso questo spazio un momento di divertimento, un appuntamento irrinunciabile anche per noi e ha avuto il merito, involontario, di creare reti e connessioni.
Ringraziamenti.
Vanno ovviamente a tutti voi che avete partecipato e ci avete fatto provare la sensazione di essere lontane, molto lontane, senza mai sentirci sole. Un pensiero speciale a Ciccio e Carmela, senza i cui sacrifici non avremmo mai potuto vivere questa esperienza unica e indimenticabile. A loro e a Isa, che non hanno potuto vedere le meraviglie che abbiamo visto noi, e che pure sono sempre stati con noi, è dedicato questo blog.
Per tutti gli altri, un invito, un augurio, quasi una preghiera: viaggiate, se potete, più che potete.
Noi lo faremo.
P.S.
Per amici e parenti un po' sadici e curiosi di sapere come ci si sente a tornare alla vita di sempre, ma proprio quella di sempre sempre, l'appuntamento è a settembre. Quando riaprono le scuole, e non solo quelle.
martedì 15 luglio 2008
Il ritorno
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venerdì 4 luglio 2008
Presente
Stiamo per tornare.
Non siamo stanche di viaggiare. Siamo sazie. E' una cosa diversa. Siamo anche un po' tristi perché sta finendo un viaggio che ci è piaciuto moltissimo e che non vorremmo finisse.
Abbiamo anche un po' voglia di tornare a casa, cioè nei tanti posti d'Italia in cui ci sentiamo a casa, di rivedere le persone, di riassaggiare i sapori e poi, a settembre, ripartire.
In un certo senso, anche se non esattamente quello che abbiamo in mente adesso, è proprio quello che ci capiterà.
Con la fine del viaggio, sta per concludersi anche questo blog che ci ha fatto sentire così vicini. Pensiamo di raccontarvi ancora, prima di chiudere, il nostro ritorno a casa, a metà luglio, e poi, a settembre, il ritorno al lavoro.
Ora però, prima di correre in spiaggia, vogliamo fare l'appello (non dimenticate che qui c'è la prof!).
A tutti quelli che in questi mesi hanno partecipato al blog, quelli che hanno solo letto, quelli che hanno guardato le foto, quelli che anche saltuariamente, a tutti quelli che conosciamo, a quelli che hanno avuto l'indirizzo per vie traverse, a tutti voi chiediamo di mandarci un segno, pubblico o privato, un messaggio sul blog, una mail, un sms, una cartolina.
Dopo aver letto le nostre parole per un anno intero, fateci leggere per una volta almeno i vostri nomi.
Alzi la mano chi è stato "PRESENTE!".
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martedì 24 giugno 2008
Naxos
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mercoledì 11 giugno 2008
Sushi
e altre bontà.
(qualche dettaglio sulla Wiki)
- AL RISTORANTE. Ci si siede al tavolo, o lungo un bancone, e si ordina il sushi e il sashimi scegliendo da un menu, spesso corredato da fotografie esplicative.
- TAKE AWAY. Si sceglie una vaschetta di sushi già confezionata o si compone secondo i propri gusti.
- AL SUSHI TRAIN. Tutti seduti su sgabelli, intorno al bancone su cui scorre un nastro che trasporta piattini con due o tre pezzi di sushi. Ogni piattino ha un prezzo riconoscibile dal colore. Sul banco, ogni postazione è dotata di: ciotole in cui versare la soia e intingere il boccone di sushi, scatole contenenti tè verde, zenzero e wasabi, e un rubinetto da cui esce acqua calda per il tè. Il cameriere alla fine conta i piattini e tu paghi di conseguenza.
- AL SUSHI TRAIN BUFFET. Funziona come il sushi train con qualche variante: ci sono anche vassoi con tempura e ognuno ha a disposizione un fornello che scalda una ciotola di brodo in cui ciascuno lascia bollire verdure, pezzi di carne o di pesce, pescato dal nastro trasportatore, per comporre una zuppa a piacimento. La caratteristica principale di questo tipo di ristoranti è che si paga un forfait e si ha a disposizione un tempo massimo (tipo un'ora e un quarto) per mangiare quanto si vuole. Poi si deve lasciare il posto. Impossibile fare diete o slow-food a queste condizioni e con tutto quel ben di dio che scorre davanti agli occhi.
Due momenti di gloria.
- Il sapore indimenticabile del tonno. I pezzi alti un centimetro si sciolgono tra la lingua e il palato. Masticare non serve.
- La vicina di posto al bancone che, dopo averci chiesto da dove veniamo, ci fa i complimenti per come usiamo bene le bacchette per mangiare il sushi. E non ci ha ancora visto mangiare i noodles (spaghetti)... in brodo.
Quasi mai i ristoranti hanno menu in inglese. Quasi mai i camerieri parlano inglese; quando va bene sanno dire una sola parola in inglese: window. E se credi che stiano parlando di Microsoft sbagli, perchè poi ti portano in strada, davanti alla loro vetrina in cui sono esposte fedeli riproduzioni in plastica dei piatti e tu ordini indicando la tua scelta. E' una specie di lotteria, a volte va bene e a volte no, ma è un modo per aguzzare la vista. Purtroppo è impossibile imparare i nomi delle pietanze e men che meno riconoscerne gli ingredienti.
Alcuni ristoranti hanno tavoli composti quasi interamente da un piano di metallo sotto cui viene acceso un fornello a gas, come quello della cucina di casa. Sulla piastra bollente vengono poi versati pezzi di carne e verdure saltate che si afferrano con le bacchette direttamente dal ripiano e si pucciano nelle salse.
Abbiamo scoperto che è un ottimo espediente per mantenere calda la pizza, che mangiata fredda fa schifo. Qui anche quella tenuta al caldo era da dimenticare.
In Giappone gli spaghetti si mangiano quasi solamente in brodo. I noodles sono di due tipi. Gli UDON, spaghettoni di farina di frumento chiari e spessi come i bucatini scotti. I SOBA, spaghettini di grano saraceno più scuri e sottili. Entrambi sono spesso serviti in ciotolone di brodo con verdure, carne o pesce.
Nella regione di Morioka, nel nord dell'isola principale, il piatto tipico è il wanko-soba. Più che una ricetta, un modo di mangiare. In una sala privata in stile giapponese (tatami, cuscini e tavolino basso) eravamo in sette: Anto, Felix, Noriko, Yuriko e Masako, più due cameriere. I wanko-soba sono noodles in brodo, che la cameriera, accompagnando il gesto con un'incitazione, versa nelle ciotole personali. Vanno poi insaporiti con verdure, alghe e salse e mangiati, quasi aspirati in un solo boccone. Appena una ciotola si svuota, la cameriera, che rimane tutto il tempo in piedi accanto a te, la riempie e ti incita a continuare e a fare in fretta fino a quando non trova la ciotola coperta, in segno di resa. Con dei fiammiferi si tiene il conto delle ciotole consumate e a fine serata si commentano i risultati di ciascuno.
Per la cronaca: Noriko ha battuto tutte con ben 70 wanko-soba; Antonia ha mantenuto alto il nome della famiglia, e del paese, piazzandosi seconda con 44 ciotoline; Felix, stremata dal ritmo e dalla posizione, ha coperto la sua ciotola dopo appena 14 accorati "Don Don!" e "Gian Gian!" ("Continua, continua!" e "Veloce, veloce!"), che la cameriera le ha rivolto, ora con cortesia, ora con tono quasi imperioso, versandole i soba.
Soka(*), un'esperienza da provare una volta nella vita.
(*) Soka = Certo
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mercoledì 4 giugno 2008
Made in Japan
Siamo in Giappone perché sei anni fa abbiamo conosciuto Noriko, una giapponese che ama l'Italia e ha voluto imparare la lingua e la cucina italiana.
Alle 6 di pomeriggio la stazione centrale di Tokyo era affollata di pendolari e il battesimo sul treno stipato all'inverosimile è stato di quelli che non si dimenticano.
Tokyo, che abbiamo visitato con Noriko e Shizu da un bus turistico e dal traghetto, e il giorno dopo in autonomia, ha confermato e smentito allo stesso tempo tutti i nostri preconcetti sul Giappone. E' una città pulita, ordinata, frenetica, affollata eppure silenziosa, le persone camminano a passo svelto e un po' nevrotico, ma poi si fermano e sorridono. La zona centrale, pur non avendo nè attrattive turistiche nè fascino particolare, colpisce per le strade ampie, i negozi eleganti e un senso complessivo di ordine. Sembra che il benessere economico abbia consentito a questa città, e forse a tutto il paese, di svilupparsi con armonia zen; tutto è nuovo, pulito, essenziale, funzionale ed elegante. I taxi hanno sportelli automatici e merletti sui sedili, i tassisti, sempre cortesi, talvolta indossano guanti bianchi. Il colore prevalente in città è il grigio del cielo, dell'asfalto e dei marciapiedi, dei vetri e dell'acciaio dei grattacieli.
Potrebbe sembrare che il Giappone sia la Svizzera dell'Asia, ma non è così perché qui, per fortuna, ci sono i giapponesi. In questa settimana ce ne siamo innamorate. Ci piace la loro incredibile gentilezza, la disposizione al sorriso, il rispetto, l'essenzialità, la precisione e il senso dell'accoglienza. A Ninomiya siamo state letteralmente adottate da Noriko e Shizu. In un grande magazzino una commessa ci ha suggerito, sottovoce, di andare nel negozio al di là della strada che vendeva lo stesso articolo alla metà del prezzo. A Kyoto, mentre per strada sfogliavamo la guida, due donne, dopo averci chiesto se avevamo bisogno di aiuto o se volevamo andare da qualche parte, ci hanno ringraziate per aver scelto di visitare la loro città e si sono congedate con un inchino.
A proposito di inchini, quando abbiamo cominciato a ringraziarci anche tra di noi con una leggera inclinazione del busto in avanti e le mani giunte, ci siamo un po' preoccupate, ma la gentilezza e la scortesia sono contagiose. Non temete, torneremo le rusticone di sempre.
Di quello che abbiamo visto finora ci hanno colpito i bagni, la manualità e lo stile.
I water nei bagni pubblici e negli alberghi, oltre a essere perfettamente puliti, funzionali e sobri, sono tecnologici: tutti dotati di dispenser disinfettante, di asse riscaldabile, di finto scroscio dell'acqua, di bidet caldo a pressione regolabile. Insomma, al di là della facile ironia, è un'esperienza davvero interessante che consigliamo!
Bagni a parte, pensavamo di trovare ovunque livelli tecnologici elevatissimi, ma finora non è stato così. L'elettronica è dappertutto, la tecnologia è di quelle avanzate ma discrete, le città sono disseminate di macchinette automatiche e sistemi intelligenti ma molte attività umane prevedono ancora azioni manuali. La sobrietà degli accessori, la cura dei particolari, la predilezione per il legno rendono il minimalismo giapponese un po' retrò eppure modernissimo. Sembra che qui riescano a fare molto bene ogni cosa e di quello che loro non fanno sanno scegliere il meglio. Come all'Open Air Museum di Hakone, uno dei migliori musei di arte moderna che abbiamo mai visto, con opere di artisti europei selezionate con gusto ed esposte con intelligenza e sobrietà.
E' come se ai giapponesi riuscisse un'alchimia che altrove sembra impossibile: far coesistere antico e moderno, tecnologia e tradizione, automatismo e manualità. C'è da invidiarli e provare, una volta tanto, a imitarli.
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venerdì 23 maggio 2008
Koh Samet
Siamo state dieci giorni a Koh Samet. E dovremmo raccontare della sabbia bianchissima e fina che scrocchia sotto i piedi; del mare di mille sfumature diverse e tutte miscugli di verde e di blu; degli uomini occidentali di tutte le età (dai 30 in su), accompagnati da thailandesi di tutte le età (dai 30 in giù), che fanno rabbia e più spesso schifo.
Koh Samet è fatta di spiagge. Non esiste un paese, c'è solo una strada che porta dal molo alle spiagge, costeggiata da qualche baracca che vende cibo, un piccolo supermercato, tre internet point e qualche negozio di souvenir. La vita si svolge sulle spiagge, lì ci sono i bungalow, i ristoranti, i bar, i baracchini ambulanti di frutta, di pollo alla brace, i venditori di sarong e le signore che fanno i massaggi al ritmo delle onde in sottofondo. Insomma, tutto quello che serve è lì, davanti al mare. E noi, dopo aver trottolato e trottolato mesi interi in giro per il mondo, in questi giorni di vacanza ci siamo sedute su due sdraio, sotto un ombrellone (ed era la prima volta in vita nostra che ci capitava) e abbiamo guardato un po' di Thailandia, e di Asia in generale, scorrere tra noi e il mare.
Abbiamo visto asiatici di tutti i tipi: coppie, famiglie, gruppi organizzati, gruppetti di amici; di tutti l'unico interesse, più ancora che godersi la spiaggia meravigliosa, sembrava quello di fotografarsi l'un l'altro, da soli, in gruppo, con autoscatto, con treppiedi. Cominciavano la mattina prima dell'alba e continuavano fino a notte. Per noi, che negli ultimi mesi abbiamo scattato migliaia di foto, è stato come guardarsi nello specchio.
Nel week-end, insieme ai thailandesi, sono arrivati anche gli occidentali che vivono a Bangkok: famiglie tutte uguali formate da quarantenni, biondi e magri, con mogli bionde e magre, bambini ovviamente biondi e magri e tate asiatiche more e paffute. Sono scesi da motoscafi-taxi, i ragazzi dei resort sono andati ad accoglierli come degli habituè, portando in spalla le loro valigie sulla spiaggia e salutando i bambini che già iniziavano a correre urlanti sul bagnasciuga. Loro, gli expat, si conoscevano tutti; si salutavano, si ritrovavano; gli uomini giocavano a bocce, le donne chiacchieravano sotto gli ombrelloni, le tate a riva giocavano con i bambini.
Tra loro e con i locali parlavano in inglese, all'interno del nucleo famigliare, invece, usavano le loro lingue di provenienza, li abbiamo sentiti parlare in inglese, francese, tedesco, e anche italiano. Abbiamo provato un po' d'invidia e un po' di fastidio per questa sorta di esilio privilegiato, ma soprattutto noia: era molto più divertente osservare gli asiatici che, con i loro costumini fantasiosi, o più spesso in maglietta e calzoncini, giocavano in acqua e sulla riva con grosse camere d'aria gonfiate. Lunedì mattina li abbiamo spiati andar via tutti. Dalle nostre sdraio si tornava a sentire solo il rumore del mare e noi potevamo ricominciare a leggere i tre libri usati (una rarità i libri in italiano) che, previdenti, avevamo raccattato su una bancarella di Bangkok.
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giovedì 8 maggio 2008
Bangkok
La tappa thailandese è iniziata sotto i migliori auspici.
Bangkok ci è sembrata immediatamente una città normale: dall'aeroporto un pullman ci ha portate a pochi passi dall'albergo dopo aver attraversato una normale periferia, con palazzoni e superstrade, poi la città moderna, grattacieli e metropolitana sopraelevata, infine il centro storico, viali alberati, canali e templi. La buona impressione è stata riconfermata dalla gentilezza quasi imbarazzante della proprietaria dell'ostello, "Madam", tutta inchini, mani giunte e thai-smile-english, cioe' l'inglese parlato a denti stretti senza interrompere il sorriso.
Le nostre giornate si stanno svolgendo secondo il ciclo: templi-cibo-massaggi-shopping.
I templi buddisti sono rivestiti da migliaia di piastrelline di ceramica colorata, tessere d'oro e specchi; ogni ingresso è sorvegliato da grandi statue bizzarre; nei cortili statue piu' piccole rappresentano animali mitologici e figure umane in esemplari posizioni yoga. L'espressione serena delle innumerevoli statue del Buddha è contagiosa e complessivamente questi templi predispongono al sorriso. Che sia questa l'essenza del buddismo? Approfondiremo.
Il tempio più sacro della Thailandia è Wat Phra Kaew e contiene la venerata statuetta del Buddha di smeraldo che si crede portatrice di grandi fortune; ma quello che a noi è piaciuto di più è Wat Pho, il più antico della città, famoso perché, oltre a una gigantesca statua di Buddha disteso, ospita la scuola ufficiale dei massaggi Thai ed e' questo il motivo per cui ci siamo tornate per la seconda volta nel giro di pochi giorni. Diciamolo subito: durante il massaggio Thai si gode poco, ma quando finisce, ci si sente una persona nuova. La pressione che il massaggiatore esercita con le mani, i gomiti, i piedi, le gambe, il mento è davvero forte e noi, sebbene abituate agli energici massaggi Shiatsu siamo rimaste tramortite da questa potenza. Così tanto, da aver deciso: massaggio un giorno sì, un giorno no. Non di più. Speriamo di riuscire a non esagerare.
Dalle somiglianze della tecnica e delle posizioni abbiamo avuto una conferma di cui non avevamo bisogno: Elvio è davvero bravo, tanto che per la prima mezz'ora abbiamo avuto l'impressione di essere nel soggiorno di casa. Poi il dolore ha preso il sopravvento e ci siamo ricordate degli altri venti esseri umani sofferenti e consenzienti come noi distesi sugli lettini vicini.
Del cibo thailandese abbiamo avuto assaggi diversi e disparati: siamo capitate in un ristorante lussuosissimo, con orchestra e cantante dal vivo sperimentando sapori davvero insoliti; alle bancarelle per strada abbiamo comprato i noodle saltati con verdure e gamberetti essiccati che abbiamo mangiato con gusto, vaschetta in una mano, forchetta nell'altra, sedute sul marciapiede (qui ci sono!); infine abbiamo pranzato nel frastuono assordante di una specie di mensa aziendale, insieme a qualche centinaio di frettolosi impiegati in pausa pranzo, scegliendo quasi a caso da menu scritti solo in thai.
E' strano trovarsi circondate da insegne e cartelli scritti in un alfabeto incomprensibile e da persone che solo raramente parlano inglese. Qui ci sta capitando spesso.
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