Siamo a Milano da 3 giorni; i nostri corpi sono qui. La nostra anima, se ne abbiamo una, no.
In aeroporto ci aspettavano Barbara, Raffaele e Jacopo. Si può dire che i fratelli, uno in Grecia, l'altro a Milano, non vedevano l'ora di rivederci. E rivederli è stato bello.
Il Fans Club di Segrate, come aveva minacciato, è venuto a salutarci a casa lunedì pomeriggio. Ci hanno fatto chiamare in portieria dove abbiamo trovato il nocciolo duro del gruppo che sventolava bandierine di benvenuto in tutte le lingue dei paesi che abbiamo attraversato. Per raggiungerle e abbracciarle abbiamo dovuto percorrere un tappeto rosso con le tappe del nostro viaggio. Loro, intanto, intonavano la colonna sonora di "Momenti di gloria". Avremmo voluto tornar su a prendere le valigie e simulare un nuovo arrivo; se lo meritavano. Ci dispiace per tutti gli altri, ma noi ci siamo divertite molto, così crediamo la portinaia, resa partecipe della burla, e qualche condomino che si è trovato a passare di lì.
Le sensazioni del ritorno sono molteplici e tuttora in corso. Abbiamo ritrovato la casa come l'abbiamo lasciata, in più c'erano i pacchi spediti dai vari paesi e un grande cumulo di posta arretrata. Muoversi, ritrovare le cose, per Anto, è stato un fatto meccanico; il corpo aveva memoria e si muoveva quasi automaticamente. Felix, invece, ha fatto più fatica a ritrovare gesti, luoghi, oggetti. Entrambe ci siamo sentite un po' disadattate, abbiamo parlato poco tra noi, come due che siano qui solo a fare un lavoro, disfare le valigie e sbrigare qualche faccenda, prima di ripartire. Come se la casa, come se questa vita, la nostra di prima, che durante il viaggio chiamavamo "l'altra vita", fosse davvero di qualcun altro.
Dopo aver vissuto così a lungo con gli stessi pochi indumenti e i pochi oggetti indispensabili, aprire l'armadio e le ante della cucina, posare gli occhi sulle librerie, è stato uno shock. Il senso di nausea e l'opprimente sensazione di superfluo che abbiamo provato ci hanno dato la misura di un cambiamento, lento e profondo, che questo viaggio ha esercitato su di noi. La gran quantità di oggetti che affolla la nostra, come tutte le case, ora che ci siamo abituate a vivere con poche cose, ci sembra più una zavorra che un privilegio. L'abitudine al nomadismo, fatta di dettagli e piccole cose, ci rende ora un po' estranee alle noi stesse che eravamo.
Il viaggio.
Il viaggio è stato bellissimo. Non ci siamo mai stancate, ci siamo divertite e lo rifaremmo, anche subito. Non sappiamo dirvi quale sia stato il luogo più bello, il tramonto più indimenticabile, la faccia più emozionante. Ogni posto è se stesso ed è bello per questo. Una sensazione è emersa con più forza nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni: la terra ha una sua propria forza che prescinde l'azione umana, ed è una forza vitale. Viene voglia di conoscerla sempre di più e di rispettarla, con deferenza, come facevano, e tuttora fanno, gli aborigeni australiani.
Il blog.
Si conclude qui. E' stato una sorpresa anche per noi. Alla partenza non sapevamo quando e quanto saremmo riuscite a scrivere. L'intenzione era quella di condividere un'esperienza, che speravamo interessante, con le persone amiche. Sembra che ci siamo riuscite e ne siamo contente e orgogliose. La vivacità dei commenti, però, non ce la aspettavamo neanche noi. E' stata una sorpresa e ha reso questo spazio un momento di divertimento, un appuntamento irrinunciabile anche per noi e ha avuto il merito, involontario, di creare reti e connessioni.
Ringraziamenti.
Vanno ovviamente a tutti voi che avete partecipato e ci avete fatto provare la sensazione di essere lontane, molto lontane, senza mai sentirci sole. Un pensiero speciale a Ciccio e Carmela, senza i cui sacrifici non avremmo mai potuto vivere questa esperienza unica e indimenticabile. A loro e a Isa, che non hanno potuto vedere le meraviglie che abbiamo visto noi, e che pure sono sempre stati con noi, è dedicato questo blog.
Per tutti gli altri, un invito, un augurio, quasi una preghiera: viaggiate, se potete, più che potete.
Noi lo faremo.
P.S.
Per amici e parenti un po' sadici e curiosi di sapere come ci si sente a tornare alla vita di sempre, ma proprio quella di sempre sempre, l'appuntamento è a settembre. Quando riaprono le scuole, e non solo quelle.
martedì 15 luglio 2008
Il ritorno
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venerdì 4 luglio 2008
Presente
Stiamo per tornare.
Non siamo stanche di viaggiare. Siamo sazie. E' una cosa diversa. Siamo anche un po' tristi perché sta finendo un viaggio che ci è piaciuto moltissimo e che non vorremmo finisse.
Abbiamo anche un po' voglia di tornare a casa, cioè nei tanti posti d'Italia in cui ci sentiamo a casa, di rivedere le persone, di riassaggiare i sapori e poi, a settembre, ripartire.
In un certo senso, anche se non esattamente quello che abbiamo in mente adesso, è proprio quello che ci capiterà.
Con la fine del viaggio, sta per concludersi anche questo blog che ci ha fatto sentire così vicini. Pensiamo di raccontarvi ancora, prima di chiudere, il nostro ritorno a casa, a metà luglio, e poi, a settembre, il ritorno al lavoro.
Ora però, prima di correre in spiaggia, vogliamo fare l'appello (non dimenticate che qui c'è la prof!).
A tutti quelli che in questi mesi hanno partecipato al blog, quelli che hanno solo letto, quelli che hanno guardato le foto, quelli che anche saltuariamente, a tutti quelli che conosciamo, a quelli che hanno avuto l'indirizzo per vie traverse, a tutti voi chiediamo di mandarci un segno, pubblico o privato, un messaggio sul blog, una mail, un sms, una cartolina.
Dopo aver letto le nostre parole per un anno intero, fateci leggere per una volta almeno i vostri nomi.
Alzi la mano chi è stato "PRESENTE!".
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martedì 24 giugno 2008
Naxos
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mercoledì 11 giugno 2008
Sushi
e altre bontà.
(qualche dettaglio sulla Wiki)
- AL RISTORANTE. Ci si siede al tavolo, o lungo un bancone, e si ordina il sushi e il sashimi scegliendo da un menu, spesso corredato da fotografie esplicative.
- TAKE AWAY. Si sceglie una vaschetta di sushi già confezionata o si compone secondo i propri gusti.
- AL SUSHI TRAIN. Tutti seduti su sgabelli, intorno al bancone su cui scorre un nastro che trasporta piattini con due o tre pezzi di sushi. Ogni piattino ha un prezzo riconoscibile dal colore. Sul banco, ogni postazione è dotata di: ciotole in cui versare la soia e intingere il boccone di sushi, scatole contenenti tè verde, zenzero e wasabi, e un rubinetto da cui esce acqua calda per il tè. Il cameriere alla fine conta i piattini e tu paghi di conseguenza.
- AL SUSHI TRAIN BUFFET. Funziona come il sushi train con qualche variante: ci sono anche vassoi con tempura e ognuno ha a disposizione un fornello che scalda una ciotola di brodo in cui ciascuno lascia bollire verdure, pezzi di carne o di pesce, pescato dal nastro trasportatore, per comporre una zuppa a piacimento. La caratteristica principale di questo tipo di ristoranti è che si paga un forfait e si ha a disposizione un tempo massimo (tipo un'ora e un quarto) per mangiare quanto si vuole. Poi si deve lasciare il posto. Impossibile fare diete o slow-food a queste condizioni e con tutto quel ben di dio che scorre davanti agli occhi.
Due momenti di gloria.
- Il sapore indimenticabile del tonno. I pezzi alti un centimetro si sciolgono tra la lingua e il palato. Masticare non serve.
- La vicina di posto al bancone che, dopo averci chiesto da dove veniamo, ci fa i complimenti per come usiamo bene le bacchette per mangiare il sushi. E non ci ha ancora visto mangiare i noodles (spaghetti)... in brodo.
Quasi mai i ristoranti hanno menu in inglese. Quasi mai i camerieri parlano inglese; quando va bene sanno dire una sola parola in inglese: window. E se credi che stiano parlando di Microsoft sbagli, perchè poi ti portano in strada, davanti alla loro vetrina in cui sono esposte fedeli riproduzioni in plastica dei piatti e tu ordini indicando la tua scelta. E' una specie di lotteria, a volte va bene e a volte no, ma è un modo per aguzzare la vista. Purtroppo è impossibile imparare i nomi delle pietanze e men che meno riconoscerne gli ingredienti.
Alcuni ristoranti hanno tavoli composti quasi interamente da un piano di metallo sotto cui viene acceso un fornello a gas, come quello della cucina di casa. Sulla piastra bollente vengono poi versati pezzi di carne e verdure saltate che si afferrano con le bacchette direttamente dal ripiano e si pucciano nelle salse.
Abbiamo scoperto che è un ottimo espediente per mantenere calda la pizza, che mangiata fredda fa schifo. Qui anche quella tenuta al caldo era da dimenticare.
In Giappone gli spaghetti si mangiano quasi solamente in brodo. I noodles sono di due tipi. Gli UDON, spaghettoni di farina di frumento chiari e spessi come i bucatini scotti. I SOBA, spaghettini di grano saraceno più scuri e sottili. Entrambi sono spesso serviti in ciotolone di brodo con verdure, carne o pesce.
Nella regione di Morioka, nel nord dell'isola principale, il piatto tipico è il wanko-soba. Più che una ricetta, un modo di mangiare. In una sala privata in stile giapponese (tatami, cuscini e tavolino basso) eravamo in sette: Anto, Felix, Noriko, Yuriko e Masako, più due cameriere. I wanko-soba sono noodles in brodo, che la cameriera, accompagnando il gesto con un'incitazione, versa nelle ciotole personali. Vanno poi insaporiti con verdure, alghe e salse e mangiati, quasi aspirati in un solo boccone. Appena una ciotola si svuota, la cameriera, che rimane tutto il tempo in piedi accanto a te, la riempie e ti incita a continuare e a fare in fretta fino a quando non trova la ciotola coperta, in segno di resa. Con dei fiammiferi si tiene il conto delle ciotole consumate e a fine serata si commentano i risultati di ciascuno.
Per la cronaca: Noriko ha battuto tutte con ben 70 wanko-soba; Antonia ha mantenuto alto il nome della famiglia, e del paese, piazzandosi seconda con 44 ciotoline; Felix, stremata dal ritmo e dalla posizione, ha coperto la sua ciotola dopo appena 14 accorati "Don Don!" e "Gian Gian!" ("Continua, continua!" e "Veloce, veloce!"), che la cameriera le ha rivolto, ora con cortesia, ora con tono quasi imperioso, versandole i soba.
Soka(*), un'esperienza da provare una volta nella vita.
(*) Soka = Certo
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mercoledì 4 giugno 2008
Made in Japan
Siamo in Giappone perché sei anni fa abbiamo conosciuto Noriko, una giapponese che ama l'Italia e ha voluto imparare la lingua e la cucina italiana.
Alle 6 di pomeriggio la stazione centrale di Tokyo era affollata di pendolari e il battesimo sul treno stipato all'inverosimile è stato di quelli che non si dimenticano.
Tokyo, che abbiamo visitato con Noriko e Shizu da un bus turistico e dal traghetto, e il giorno dopo in autonomia, ha confermato e smentito allo stesso tempo tutti i nostri preconcetti sul Giappone. E' una città pulita, ordinata, frenetica, affollata eppure silenziosa, le persone camminano a passo svelto e un po' nevrotico, ma poi si fermano e sorridono. La zona centrale, pur non avendo nè attrattive turistiche nè fascino particolare, colpisce per le strade ampie, i negozi eleganti e un senso complessivo di ordine. Sembra che il benessere economico abbia consentito a questa città, e forse a tutto il paese, di svilupparsi con armonia zen; tutto è nuovo, pulito, essenziale, funzionale ed elegante. I taxi hanno sportelli automatici e merletti sui sedili, i tassisti, sempre cortesi, talvolta indossano guanti bianchi. Il colore prevalente in città è il grigio del cielo, dell'asfalto e dei marciapiedi, dei vetri e dell'acciaio dei grattacieli.
Potrebbe sembrare che il Giappone sia la Svizzera dell'Asia, ma non è così perché qui, per fortuna, ci sono i giapponesi. In questa settimana ce ne siamo innamorate. Ci piace la loro incredibile gentilezza, la disposizione al sorriso, il rispetto, l'essenzialità, la precisione e il senso dell'accoglienza. A Ninomiya siamo state letteralmente adottate da Noriko e Shizu. In un grande magazzino una commessa ci ha suggerito, sottovoce, di andare nel negozio al di là della strada che vendeva lo stesso articolo alla metà del prezzo. A Kyoto, mentre per strada sfogliavamo la guida, due donne, dopo averci chiesto se avevamo bisogno di aiuto o se volevamo andare da qualche parte, ci hanno ringraziate per aver scelto di visitare la loro città e si sono congedate con un inchino.
A proposito di inchini, quando abbiamo cominciato a ringraziarci anche tra di noi con una leggera inclinazione del busto in avanti e le mani giunte, ci siamo un po' preoccupate, ma la gentilezza e la scortesia sono contagiose. Non temete, torneremo le rusticone di sempre.
Di quello che abbiamo visto finora ci hanno colpito i bagni, la manualità e lo stile.
I water nei bagni pubblici e negli alberghi, oltre a essere perfettamente puliti, funzionali e sobri, sono tecnologici: tutti dotati di dispenser disinfettante, di asse riscaldabile, di finto scroscio dell'acqua, di bidet caldo a pressione regolabile. Insomma, al di là della facile ironia, è un'esperienza davvero interessante che consigliamo!
Bagni a parte, pensavamo di trovare ovunque livelli tecnologici elevatissimi, ma finora non è stato così. L'elettronica è dappertutto, la tecnologia è di quelle avanzate ma discrete, le città sono disseminate di macchinette automatiche e sistemi intelligenti ma molte attività umane prevedono ancora azioni manuali. La sobrietà degli accessori, la cura dei particolari, la predilezione per il legno rendono il minimalismo giapponese un po' retrò eppure modernissimo. Sembra che qui riescano a fare molto bene ogni cosa e di quello che loro non fanno sanno scegliere il meglio. Come all'Open Air Museum di Hakone, uno dei migliori musei di arte moderna che abbiamo mai visto, con opere di artisti europei selezionate con gusto ed esposte con intelligenza e sobrietà.
E' come se ai giapponesi riuscisse un'alchimia che altrove sembra impossibile: far coesistere antico e moderno, tecnologia e tradizione, automatismo e manualità. C'è da invidiarli e provare, una volta tanto, a imitarli.
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venerdì 23 maggio 2008
Koh Samet
Siamo state dieci giorni a Koh Samet. E dovremmo raccontare della sabbia bianchissima e fina che scrocchia sotto i piedi; del mare di mille sfumature diverse e tutte miscugli di verde e di blu; degli uomini occidentali di tutte le età (dai 30 in su), accompagnati da thailandesi di tutte le età (dai 30 in giù), che fanno rabbia e più spesso schifo.
Koh Samet è fatta di spiagge. Non esiste un paese, c'è solo una strada che porta dal molo alle spiagge, costeggiata da qualche baracca che vende cibo, un piccolo supermercato, tre internet point e qualche negozio di souvenir. La vita si svolge sulle spiagge, lì ci sono i bungalow, i ristoranti, i bar, i baracchini ambulanti di frutta, di pollo alla brace, i venditori di sarong e le signore che fanno i massaggi al ritmo delle onde in sottofondo. Insomma, tutto quello che serve è lì, davanti al mare. E noi, dopo aver trottolato e trottolato mesi interi in giro per il mondo, in questi giorni di vacanza ci siamo sedute su due sdraio, sotto un ombrellone (ed era la prima volta in vita nostra che ci capitava) e abbiamo guardato un po' di Thailandia, e di Asia in generale, scorrere tra noi e il mare.
Abbiamo visto asiatici di tutti i tipi: coppie, famiglie, gruppi organizzati, gruppetti di amici; di tutti l'unico interesse, più ancora che godersi la spiaggia meravigliosa, sembrava quello di fotografarsi l'un l'altro, da soli, in gruppo, con autoscatto, con treppiedi. Cominciavano la mattina prima dell'alba e continuavano fino a notte. Per noi, che negli ultimi mesi abbiamo scattato migliaia di foto, è stato come guardarsi nello specchio.
Nel week-end, insieme ai thailandesi, sono arrivati anche gli occidentali che vivono a Bangkok: famiglie tutte uguali formate da quarantenni, biondi e magri, con mogli bionde e magre, bambini ovviamente biondi e magri e tate asiatiche more e paffute. Sono scesi da motoscafi-taxi, i ragazzi dei resort sono andati ad accoglierli come degli habituè, portando in spalla le loro valigie sulla spiaggia e salutando i bambini che già iniziavano a correre urlanti sul bagnasciuga. Loro, gli expat, si conoscevano tutti; si salutavano, si ritrovavano; gli uomini giocavano a bocce, le donne chiacchieravano sotto gli ombrelloni, le tate a riva giocavano con i bambini.
Tra loro e con i locali parlavano in inglese, all'interno del nucleo famigliare, invece, usavano le loro lingue di provenienza, li abbiamo sentiti parlare in inglese, francese, tedesco, e anche italiano. Abbiamo provato un po' d'invidia e un po' di fastidio per questa sorta di esilio privilegiato, ma soprattutto noia: era molto più divertente osservare gli asiatici che, con i loro costumini fantasiosi, o più spesso in maglietta e calzoncini, giocavano in acqua e sulla riva con grosse camere d'aria gonfiate. Lunedì mattina li abbiamo spiati andar via tutti. Dalle nostre sdraio si tornava a sentire solo il rumore del mare e noi potevamo ricominciare a leggere i tre libri usati (una rarità i libri in italiano) che, previdenti, avevamo raccattato su una bancarella di Bangkok.
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giovedì 8 maggio 2008
Bangkok
La tappa thailandese è iniziata sotto i migliori auspici.
Bangkok ci è sembrata immediatamente una città normale: dall'aeroporto un pullman ci ha portate a pochi passi dall'albergo dopo aver attraversato una normale periferia, con palazzoni e superstrade, poi la città moderna, grattacieli e metropolitana sopraelevata, infine il centro storico, viali alberati, canali e templi. La buona impressione è stata riconfermata dalla gentilezza quasi imbarazzante della proprietaria dell'ostello, "Madam", tutta inchini, mani giunte e thai-smile-english, cioe' l'inglese parlato a denti stretti senza interrompere il sorriso.
Le nostre giornate si stanno svolgendo secondo il ciclo: templi-cibo-massaggi-shopping.
I templi buddisti sono rivestiti da migliaia di piastrelline di ceramica colorata, tessere d'oro e specchi; ogni ingresso è sorvegliato da grandi statue bizzarre; nei cortili statue piu' piccole rappresentano animali mitologici e figure umane in esemplari posizioni yoga. L'espressione serena delle innumerevoli statue del Buddha è contagiosa e complessivamente questi templi predispongono al sorriso. Che sia questa l'essenza del buddismo? Approfondiremo.
Il tempio più sacro della Thailandia è Wat Phra Kaew e contiene la venerata statuetta del Buddha di smeraldo che si crede portatrice di grandi fortune; ma quello che a noi è piaciuto di più è Wat Pho, il più antico della città, famoso perché, oltre a una gigantesca statua di Buddha disteso, ospita la scuola ufficiale dei massaggi Thai ed e' questo il motivo per cui ci siamo tornate per la seconda volta nel giro di pochi giorni. Diciamolo subito: durante il massaggio Thai si gode poco, ma quando finisce, ci si sente una persona nuova. La pressione che il massaggiatore esercita con le mani, i gomiti, i piedi, le gambe, il mento è davvero forte e noi, sebbene abituate agli energici massaggi Shiatsu siamo rimaste tramortite da questa potenza. Così tanto, da aver deciso: massaggio un giorno sì, un giorno no. Non di più. Speriamo di riuscire a non esagerare.
Dalle somiglianze della tecnica e delle posizioni abbiamo avuto una conferma di cui non avevamo bisogno: Elvio è davvero bravo, tanto che per la prima mezz'ora abbiamo avuto l'impressione di essere nel soggiorno di casa. Poi il dolore ha preso il sopravvento e ci siamo ricordate degli altri venti esseri umani sofferenti e consenzienti come noi distesi sugli lettini vicini.
Del cibo thailandese abbiamo avuto assaggi diversi e disparati: siamo capitate in un ristorante lussuosissimo, con orchestra e cantante dal vivo sperimentando sapori davvero insoliti; alle bancarelle per strada abbiamo comprato i noodle saltati con verdure e gamberetti essiccati che abbiamo mangiato con gusto, vaschetta in una mano, forchetta nell'altra, sedute sul marciapiede (qui ci sono!); infine abbiamo pranzato nel frastuono assordante di una specie di mensa aziendale, insieme a qualche centinaio di frettolosi impiegati in pausa pranzo, scegliendo quasi a caso da menu scritti solo in thai.
E' strano trovarsi circondate da insegne e cartelli scritti in un alfabeto incomprensibile e da persone che solo raramente parlano inglese. Qui ci sta capitando spesso.
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giovedì 1 maggio 2008
Ha detto Henry Michaux
"In India, se non pregate avete sprecato il vostro viaggio. E' solo tempo regalato alle zanzare." Anche per noi, a poche ore dalla partenza, è arrivato il momento di fare qualche bilancio.
E poi l'India. Dai commenti pubblici e privati ai post precedenti abbiamo avuto l'impressione che molti di voi, certi che questo paese ci avrebbe rapite, colpite, affascinate, sconvolte, siano rimasti stupiti e increduli di fronte alle nostre parole di disagio. Abbiamo discusso a lungo, nelle torride serate indiane, sul perché questa comunicazione sia risultata tanto difficile.
C'è stata da parte nostra la difficoltà di dire pubblicamente tutto il brutto che abbiamo visto. Una specie di censura inconscia, mista a qualche retaggio di politically correct, ha evidentemente filtrato i pensieri; la traduzione in parole ha stemperato ancora di più la realtà.
Ma cosa abbiamo visto di così fastidioso? Anche qui, lunghe discussioni e posizioni diverse.
Per Felix l'inguardabile, l'indicibile è la povertà. E' quella che ci mette a disagio, è quella il motivo originario che ha reso questo paese così impraticabile per noi, così poco adatto a essere tappa di un viaggio come il nostro.
Anche per la Lodi, che da quando l'ha conosciuta a 20 anni, non ha mai smesso di amare l'India, il fattore chiave è la povertà, che il paese si sta faticosamente scrollando di dosso. I cambiamenti sociali che ha notato, un miglior tenore di vita, automobili, cellulari, e altri beni di consumo, ancora appannaggio solo di un'elite, sono l'espressione di uno sviluppo disordinato i cui effetti negativi ricadono sulla parte più povera della società.
Ad Anto la spiegazione della sola povertà non convince. L'India le è sembrato un paese in movimento, ma con eredità sociali e culturali che probabilmente legano le persone al proprio ineluttabile destino, e rendono difficili quei cambiamenti che a noi sembrano segnali di civiltà.
Abbiamo discusso per ore sul perché tutte le strade siano male asfaltate, senza un posto dove le persone possano camminare (i marciapiedi) e, sia in campagna che in città, costeggiate da rifiuti. E le persone sedute per terra? E quelli scalzi (ma col cellulare in mano)? E' povertà o un modo diverso di vivere? E cosa tiene le donne piegate in due per spazzare il bordo della strada con scopette senza manico? La povertà o qualche motivo a noi ignoto, o incomprensibile, giacché un semplice bastone di legno ridarebbbe loro la dignità della posizione eretta?
Parlare con gli indiani, per capirci di più non è stato facile. La difficoltà a parlare delle caste, la tendenza a compiacere gli stranieri, il tentativo di ricavarci qualcosa, il motto esemplificativo del nostro autista "Good for you, not good for me" a rimarcare tutte le differenze, hanno ostacolato una comprensione soddisfacente.
Partiamo senza una risposta alla domanda che ci ha portate qui: qual è la magia dell'India che affascina, o ha affascinato, tante persone? Noi, per sopravvivere, abbiamo dovuto fare una cosa che in questo viaggio mai avremmo creduto, ma che in India abbiamo visto fare a tanti turisti: ci siamo segregate nei resort di lusso con piscina (e aria condizionata), lasciando fuori dal cancello tutto il resto. Un piccolo fallimento personale.
Forse i pensieri che Felix ha trascritto in un giorno qualunque di questo viaggio in India possono aiutarvi a capire come ci siamo sentite.
"India, ovvero tutto quello che non avrei voluto vedere, ovvero tutto quello che ho sempre letto e non avevo mai visto, ovvero la povertà.
Guardo guardo guardo, poi non vedo niente di niente. Per giorni ho continuato a chiedermi ma dove sono i marciapiedi? Mi mancava la terra sotto ai piedi. Poi ho cercato quelli come me, quelli che vivono nei palazzi, negli appartamenti e non li ho trovati; dovunque vado sono circondata dalla maggioranza di poveri. Non so come altro chiamarli, vivono per terra, mangiano per terra, orinano e cagano per strada, esattamente come i cani. Sono a disagio? Sono turbata? Sono sorpresa? E' poco è poco. Sono un' analfabeta sociale. Quello che fino ad ora mi è servito per capire e interpretare la realtà qui non mi aiuta; penso ai diritti dell'uomo e del cittadino, all'educazione civica che ho pure insegnato, penso allo stato di diritto, alle conquiste sindacali. No, non c'è pensiero che tenga in piedi ciò che vedo. La religione si, eccome! Ogni cosa è religiosa! Pure il fango e i bimbi nudi per terra. Ho letto di templi straordinari, sono fruibili solo insieme a tutto il resto. Passaporto, certificazione febbre gialla, rupie, inglese non servono a niente, servono a poco, a consumare l'India. A me, forse, occorreva un cuore nuovo, un cuore dove non c'era scritto niente per scrivere in un nuovo alfabeto e leggere in una nuova lingua. Il mio attuale stato di civiltà è inadeguato, il mio sentimento religioso grande come seme di finocchio è ora un granulo di polvere di caffè. Gli uomini nei rifiuti, con la terra e gli animali e con le macchine e i rumori mi creano dei problemi consci, inconsci, subsociali tali da desiderare starci lontano. Odori, profumi, sapori cioè spezie e spazzature, umidità massima, zanzare potenzialmente fetenti, cosa metto ancora sull'altro piatto della bilancia? Ho finito le carte del mazzo? Cosa mi gioco? Mi è rimasta la saliva da deglutire, perchè il respiro va."
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Etichette: India
sabato 19 aprile 2008
Visita al tempio
L'hinduismo è una religione politeista. Le tre divinità principali sono Brahama il creatore, Visnu il preservatore incarnatosi numerose volte (per ogni incarnazione, una divinità), e Shiva il distruttore di demoni. Accanto a loro, mogli, figli, figliastri e animali; una tribù che, al confronto, quella di zia Tetta impallidisce.
Per entrare nel tempio dobbiamo toglierci le scarpe. Lasciare brillare i nostri sandaletti sulla catasta di polverose e consunte ciabattine infradito, ci sembra un invito irresistibile al furto. Noi, al posto loro, ce li prenderemmo. Quindi mettiamo le scarpe in un sacchetto di plastica e le infiliamo furtivamente nello zaino. Sospettiamo che il gesto sia un po' sacrilego, ma facciamo le gnorri. Prima di entrare, una preghiera a Shiva affinchè distrugga, oltre ai demoni, anche animali, funghi, bacilli e quant'altro dovessimo calpestare.
Superiamo l'antico portale di legno, sormontato da una torre colorata, e ci fanno passare su una pedana, sotto una specie di metal detector. Sembrano bastoni di plastica legati con lo scotch a formare un varco, nessun sentore di collegamenti elettrici, nessun bip, la Lodi giura di aver visto una lucina rossa, ma lei difende sempre gli indiani e non le crediamo. Un poliziotto chiede di aprire gli zaini, mette le mani dentro, simula un controllo, apre la bottiglietta dell'acqua e finge di annusarla. Poi la richiude. Guarda nel sacchetto con il cibo, in quello con le scarpe. Ha un'espressione schifata e ci fa passare con un gesto brusco.
Dentro, la vita è come fuori: un gran casino. Un atrio di colonne scolpite è affollato da bancarelle illuminate dai neon. Vendono l'occorrente per le offerte: immaginette sacre, collane di fiori, unguenti, polveri colorate, lumini a olio, nastri, pappette di riso avvolte in foglie di banano, e altri oggetti ameni: souvenir, giocattoli made in china, cartoline. I soffitti sono dipinti di vivaci colori con motivi floreali e scene sacre.
Le persone camminano chiacchierando, c'è chi si affretta, chi chiede l'elemosina, chi discute animosamente al cellulare, chi sta sdraiato per terra in un angolo ombroso. Difficile dire se stia solo riposando o sia uno dei disperati che si vedono buttati in terra lungo le strade. C'è gente in coda in attesa che vengano distribuiti cibo e acqua, e c'è chi il pasto se l'è portato da casa e fa un pic-nic sotto il colonnato, con tutta la famiglia raccolta in cerchio.
Il tempio è tutto un alternarsi di zone buie e cortili abbaglianti. Pensavamo che camminare a piedi nudi sul pavimento un po' unto, scansando resti di cibo, scarafaggi, sputi, cacate di mucche e pisciate di elefanti fosse già un'impresa complicata, ma non avevamo messo in conto l'attraversamento dei cortili sui lastroni di pietra arroventati dal sole.
Turisti non ce ne sono, con questo caldo i pochi che abbiamo visto in India saranno rintanati nelle piscine degli alberghi, beati loro. Noi siamo seguite da un vecchio che, parlando in tamil e con gesti a suo parere eloquenti, vorrebbe farci da guida e ci invita a seguirlo, nonostante i nostri reiterati rifiuti. Proviamo a ignorarlo. Lui ci prende per un braccio per portarci dove vuole, ci invita ad affrettare il passo. La tentazione di mandarlo a cacare è forte. La Lodi, curiosa, lo segue per un po', poi si stufa anche lei e pensa di liquidarlo dandogli dei soldi. Lui non demorde e la chiama ancora: "màdam! màdam!", poi solo "ma' ma'", le mostra una colonna sonante e altre curiosità che a suo parere dovrebbero interessare i turisti. Alla fine chiederà altri soldi, quelli ricevuti, come è costume in India, sembrano non bastare mai.
Nel cortile, ogni tanto si erge un tempio minore, spesso contrassegnato da un ghirigoro fatto da un tubo neon che emana luce colorata: è il nome della divinità in lingua tamil, ma sembra un'insegna da bar rockabilly anni '50. Intorno ai tempietti c'è sempre qualcuno piegato in due, ovviamente una donna, che spazza per terra con una scopa di frasche, senza manico. Non raccoglie mai, semplicemente sposta la polvere da qui a lì. Domani la sposterà da lì a qui. L'abbiamo visto fare ovunque, perfino lungo le strade di terra battuta e sulla spiaggia.
Nel buio i lumini accesi lasciano indovinare statue Chola (i pugliesi sappiano che si tratta di una dinastia indiana!) raffiguranti divinità e i resti delle offerte, le puja: ghirlande di fiori, resti di cibo, segni di unguenti gialli o rossi spalmati sulle statue o sui bassorilievi.
Un sacerdote davanti alla statua di Ganesh, il dio con la testa d'elefante, raccoglie le puja dai fedeli in coda, le avvicina alla statua e le restituisce, benedette. Riceve in cambio un'offerta. Non ha nessun segno distintivo, potrebbe essere uno dei vecchi che chiedono l'elemosina. L'odore che pervade tutto è un misto di incenso e gelsomino, ma anche di fiori appassiti, avanzi di cibo, burro irrancidito e sudore, il nostro. Con i 38 gradi e il 95% di umidità ci stiamo abituando ai rivoli che scorrono regolarmente sul nostro corpo.
Una vasca grande come una piscina serve per le abluzioni, che tentazione! Vi si accede attraverso scalinate e c'è sempre qualcuno che si sta lavando i piedi o si versa l'acqua in testa con le mani.
Statue portate in processione, annunciate da scampanii e cantilene, gente che si genuflette, segnandosi sulla fronte, sul petto, dietro le orecchie, alcuni si sdraiano per terra in segno di totale sottomissione, altri pregano a mani giunte, qualcuno tocca ripetutamente una statua e si bacia le dita, altri girano in cerchio intorno a un tabernacolo che contiene la rappresentazione dei pianeti, qualcuno lucida la statua della propria divinità prediletta. Nonostante le apparenti diversità, i rituali della fede qui non sono poi così diversi da quelli praticati in Italia.
Quando ci accorgiamo di essere passate per la terza volta davanti alla statua di Nandì, il toro veicolo di Shiva, capiamo che è il momento di andare via. Cerchiamo la porta giusta tra le cinque del tempio. Appena fuori, mentre ci infiliamo i sandali in bilico su un piede, si avvicinano nell'ordine: una donna con bambino in braccio che chiede soldi (no, sorry), un ragazzo che vende cartoline di dei (no, thank you), un altro che si propone di farci da guida nel tempio (ma come? siamo appena uscite), chi ci vuole vendere occhiali da sole (i nostri li abbiamo già sul naso), un altro vecchio vuole farci da guida (no), quindi ci vuole portare in un negozio di artigianato di un amico suo (no, thank you) e infine ci propone indian marjuana very good, very cheap (no, purtroppo no). Un signore di mezz'età ci offre con insistenza memory stick per macchine fotografiche (no, no, no!), quasi offeso dal rifiuto, scaracchia nell'orecchio di Anto. Nel dubbio che si sia trattato di un gesto di disprezzo, Anto si volta e gli risponde a tono, con uno scaracchio. Lui sembra stupito. Anche noi.
E' proprio vero: un viaggio in India ti trasforma sempre.
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giovedì 10 aprile 2008
Il Kerala a piccoli morsi
Fuori dai desolanti centri abitati, ci sono dei bei paesaggi. La vegetazione è quella generosa delle zone tropicali. Oltre alle colline con le piantagioni di tè, abbiamo attraversato distese di eucalipti e di palme da cocco. Abbiamo visto gli alberi di caucciù; si riconoscono perché sono ornati da un gonnellino di plastica azzurra, fissato al tronco da una banda di pece, che serve a proteggere la gomma che sgorga da un'incisione verticale nel tronco e si raccoglie in una ciotola. Sembrano donatori di sangue bianco forzati dall'immobilità. Un po' fanno pena. La campagna è ricca di frutti e di coltivazioni. Lungo le strade le case nuove appena costruite, decorate e dipinte, si alternano a baracche e a casupole più vecchie, sporche e malandate. Questo contrasto sembra raccontare la storia dell'India degli ultimi 60 anni.
IL CLIMA
Il clima qui ha il ritmo dei monsoni; al prossimo dovrebbe mancare un mese, ma ogni tanto uno scroscione di pioggia vivace ci ricorda che le stagioni non hanno date precise e che anche qui il riscaldamento globale sta alterando gli equilibri. Di sicuro il caldo è pesante. I gradi sono solo 32, ma l'umidità al 95% lo rende a stento sopportabile. Però bisogna conviverci: si bevono molti succhi d'ananas e si rallenta il passo, di molto. Anche il mare è caldo: nessun refrigerio nel bagnarsi. Iniziamo, mai prima d'ora, ad apprezzare l'aria condizionata.
LE RELIGIONI
Il Kerala è un'anomalia indiana. Qui gli indù, i cristani e i musulmani si ripartiscono la cura delle anime. Lungo le strade si susseguono moschee di tutte le tonalità di verde, templi colorati e chiese costruite in cima a lunghe scalinate bianche, in una corsa al kitsch che può sembrare perfino divertente. Un esempio? Talvolta, nei pressi di una chiesa, la statua di un santo dai colori sgargianti vigila sui passanti all'ombra di un ombrellino da marajà.
LE BACKWATERS
Sono una fitta rete di canali, bordati di palme e separati dal mare da una stretta striscia di terra, che collega laghi e corsi d'acqua, creando un paesaggio davvero speciale. Abbiamo fatto una gita su una "kettu vallam", le vecchie imbarcazioni usate per il trasporto delle merci, ora riconvertite in house-boat turistiche. La vita lungo i canali scorre lenta, come le barche sull'acqua. Le rive sono costeggiate da villaggi e risaie. Al tramonto gli abitanti escono da casa, saponetta in una mano e asciugamani nell'altra, e scendono a lavarsi nel canale. Le donne fanno il bucato sbattendo i panni su lastre di pietra. I bambini salutano i turisti, qualcuno chiede una penna, più per abitudine che per necessità, qualcuno una foto. Camminare lungo le coste di terra che separano i canali è piacevole e rilassante. Abbiamo visto le lucciole e non ci volevamo credere.
IL CIBO
In Kerala, come probabilmente in tutta l'India, si mangia molto bene. Le abitudini vegetariane di molti indù arricchiscono la cucina di verdure e legumi, cotti sempre in salsine saporite, talvolta piccanti, talvolta solo speziate: i masala. I piatti sono spesso accompagnati da riso spesso condito, e con il chappaty, un pane tiepido e morbido che sembra una piadina, si raccoglie il sugo e i pezzi di verdura. Mangiare tutti i giorni al ristorante è un vero piacere, non ci siamo ancora stufate e, per la prima volta da quando siamo partite, il nostro stomaco ci ringrazia dopo ogni pasto.
IL KATHAKALI
E' un'antica forma di teatro-danza. Gli attori non parlano, sono accompagnati da musiche ritmate e da un coro che è voce narrante; comunicano con il pubblico mediante una ricca mimica ben codificata, con il movimento delle mani e dei piedi, e con la posizione delle dita. Una sorta di Linguaggio dei Segni che ha su di noi un potere quasi ipnotico. Gli spettacoli, che originariamente duravano otto ore, sono stati ridotti per renderli accessibili ai turisti. Quello che succede sul palco, sebbene incomprensibile, è terribilmente affascinante. Prima dello spettacolo vero e proprio, si assiste al trucco degli attori che è un'arte in sè, i ricchi disegni delle maschere e alla vestizione che svela come, partendo da materiali semplici, corde, teli e sacchi di juta, si possano creare costumi fantasiosi.
IL PRIMO MASSAGGIO AYURVEDICO
In una sorta di chalet un po' in penombra, due ragazze, ci fanno sedere su uno sgabello, ci porgono un succo scuro da bere e, raccogliendolo con le mani, ci versano sulla testa una coppa di olio alle erbe ayurvediche. Lo spalmano ben bene su tutto il corpo, capelli compresi. Poi ci invitano a stenderci su un materassino poggiato sul pavimento e una di loro, mantenendosi ad una fune appesa al soffitto, comincia a strofinare il nostro corpo con la pianta del suo piede, affinché l'energico massaggio faciliti l'assorbimento degli olii benefici. Dopo una buona mezz'ora di passa e spassa, il massaggio continua in modo più tradizionale su un tavolo di legno, faccia, corpo, gambe, piedi. Infine lo steam bath: una cottura a vapore (come se non facesse già abbastanza caldo) in una sorta di armadio appoggiato su un braciere acceso. Si apre uno sportello, ci si siede sullo sgabello, si richiude, la testa rimane fuori. Sembra di essere nella cabina di un illusionista, mentre il sudore cerca faticosamente di superare lo strato di olio. Alla fine: il lavaggio. In uno sgabuzzino ci sono due secchi d'acqua tiepida e un secchiello. Veniamo invitate a lavar via l'olio, impresa scientificamente impossibile. Restiamo unte.
Prima di congedarci una ragazza accende una specie di cannone, l'avvicina alla nostra faccia ci soffia su e ci invita a inalare il fumo. Pare faccia bene alla sinusite, di sicuro usciamo dallo chalet molto più rilassate, con una faccia diversa. Quella che avete visto nella foto!
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venerdì 4 aprile 2008
Ricominciamo da tre
Anzi da quattro. Una bella rivoluzione. Alle bab si sono aggiunti la Lodi e Kumar, e il viaggio, dopo la sosta a Mumbai, è ricominciato. La Lodi è la nostra amica pittrice e fotografa, postale a tempo perso; dei suoi quadri è tappezzata la nostra casa. All'inizio abbiamo un po' scherzato sul suo desiderio di raggiungerci in India e fare un pezzo di viaggio insieme; alla fine, sorprendendo le incredule bab, ci ha raggiunte davvero. Kumar è l'autista che ci accompagnerà per tutto il mese. E' un indiano di 37 anni, cordiale e sorridente. Ci stiamo ancora conoscendo. Di lui per ora possiamo solo dire che guida all'indiana: a cavallo della striscia di mezzeria, correndo appena può, e suonando il clacson ogni volta che nel suo campo visivo compare un essere animato che viene così invitato a spostarsi, ma in fretta. Anche se non c'è nessuno, Kumar, come tutti, suona lo stesso, caso mai qualcuno avesse intenzione di affacciarsi per strada. Ora siamo in Kerala, uno stato dell'India del Sud. Siamo state qualche giorno a Kochi, una città famosa per il suo centro storico che in passato ha ospitato cinesi, portoghesi, olandesi, inglesi. Ognuno ha lasciato un segno architettonico del proprio passaggio. Ci immaginavamo un centro storico, fatto di strade e case antiche, ben tenuto, perfino un po' leccato. Questo credevamo, dimenticando che siamo in India. Qui anche la principale attrazione turistica della città è un susseguirsi di strade costeggiate da casupole e palazzetti un po' cadenti, attraversate da scoli, cumuli di immondizia, animali e orde di risciò. Poiché il Kerala è la patria dell'ayurveda, prima di lasciare la città e buttarci verso l'interno, ci siamo trattate con un massaggio che ci ha rimesse a lucido. Abbiamo impiegato due giorni per liberarci dell'olio che ci avevano versato in testa e spalmato su tutto il corpo, e così, un po' "unte del signore" siamo arrivate a Munnar, una "ridente" località di montagna, a 1600 mt, meta degli sposini indiani in viaggio di nozze alla ricerca di fresco e aria buona. L'aria è effettivamente più fresca che lungo la costa, quanto alla bontà... decine di risciò affumicano il centro del paese fatto di una strada poco asfaltata e baracche dai tetti di lamiera. Kumar ci ha portate a vedere l'attrazione del posto: una diga. Bah. La strada tortuosa che abbiamo percorso da Munnar a Periyar è stata per noi la vera sorpresa. Un paesaggio fatto di colline di tè a perdita d'occhio. I filari irregolari e sinuosi tracciano sui pendii un disegno che sembra un ricamo. Ogni settimana le raccoglitrici staccano le foglie giovani dalla sommità delle piante; il risultato è una sequenza interminabile di cespugli perfettamente potati a mano. Tutta la regione è proprietà di Tata, l'industriale indiano che ha riempito il paese di macchine e camion, e che sembra essere in ogni settore dell'economia rampante; lo stesso che qualche giorno fa, con grande soddisfazione degli indiani che vi hanno visto una rivalsa sui colonizzatori inglesi, ha comprato la Jaguar. Non l'auto, ma proprio tutta l'azienda, marchio, stabilimenti, brevetti. Dopo chilometri e chilometri di curve, il tè lascia il posto a piantagioni di cardamomo e caffè: siamo sulla via delle spezie ed è bello scoprirne le foglie, i fiori, i semi. Intendersi con gli indiani non è semplice. Alla difficoltà di comprendere il loro inglese molto sincopato, e la Lodi lo parla meglio di Anto, si aggiunge il loro modo di intendere le relazioni umane, la fiducia, l'ospitalità. Emergono così, negli scambi quotidiani con l'autista, o con il proprietario della pensione, tutte le differenze culturali di cui finora avevamo solo letto.
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venerdì 28 marzo 2008
Mumbai
Come ve lo immaginate l'arrivo in una megalopoli indiana con più di 15 milioni di abitanti?
E poi una strada lunga 30 km, larga sei corsie che ne incrocia altre altrettanto grandi, tutte costeggiate da baracche semibuie fatte di legno, cartone e altri materiali di scarto e punteggiate da lucine fioche fioche? Ed esseri umani, tanti, tanti, che camminano al buio lungo i bordi, o stanno seduti su muretti, o accovacciati per terra a cucinare, a mangiare o a fare chissà che? E fiumi di macchine a passo d'uomo, e motorini e biciclette e risciò, e poi camion, autobus e pedoni, tutti insieme, ognuno a intersecare il percorso degli altri, ognuno a conquistarsi qualche metro lungo la sua strada? E tutti che suonano il clacson come per annunciare di esserci anche loro, e chi non ha il clacson urla?
Bene. Nessun assalto dei tassisti. Siamo andate noi a cercare in un parcheggio buio quello che ci era stato assegnato allo sportello dei taxi prepagati.
Ma il resto c'era tutto.
E qualora ve lo stiate chiedendo, sì, c'erano anche un carretto trainato dal bue e un contadino che portava la sua vacca al guinzaglio.
Il tassista era un ragazzo azzimato, e per tutto il tragitto, durato 2 ore, non ci ha rivolto una parola nè uno sguardo; ogni tanto apriva lo sportello ed educatamente sputava fuori, come facevano tutti gli altri automobilisti e pedoni.
Per due ore non siamo riuscite a fare altro che guardare fuori dal finestrino, con gli occhi sbarrati, incapaci di scambiarci due parole. Ognuna sperando che quel viaggio finisse presto. Ognuna sperando che il ragazzo per bene non svoltasse in una strada buia di una di quelle baraccopoli che stavamo attraversando. Ogni tanto lungo la strada, ricompariva qualche lampione, qualche insegna commerciale e noi speravamo di essere finalmente arrivate in città, la città vera. Ma poi ricominciavano le baracche e la folla e l'illusione svaniva. Quando il tassista ci ha finalmente annunciato che eravamo a Colaba, il quartiere più turistico, quello con gli alberghi, avevamo appena superato l'ennesimo slum.
Nei due giorni seguenti, quello che abbiamo visto nel centro della città più moderna dell'India, ha confermato la prima impressione di miseria. Per le strade, ad ogni angolo, persone, soprattutto uomini, pochissime donne, molti affaccendati e moltissimi a non fare niente. L'aria è calda e appiccicosa d'umidità. Gli odori aspri si mescolano allo smog.
In molti angoli, gruppi familiari letteralmente "buttati" per strada, sdraiati, seduti, non a mendicare, sembra che vivano lì; intorno traffico frenetico, assordante. Rari i turisti. Gli edifici del centro, anche il più importante museo della città, sono molto malandati, con una patina di vecchio e di sporco; per le strade cumuli di terra, mattoni e calcinacci lasciano immaginare cantieri e lavori in corso, se non fosse che è tutto abbandonato e non si vedono operai.
Andremo via da qui senza aver visto le altre zone della città, senza avere avuto voglia di andare a curiosare negli altri quartieri.
E' la prima volta che ci succede da quando siamo partite.
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mercoledì 26 marzo 2008
Hong Kong
Per due giorni siamo state immerse nella foschia.
La città colpisce innanzitutto per la sua struttura: grandi arterie autrostradali cittadine che si intersecano su più livelli, una fitta rete di ponti e passerelle pedonali, che entrano ed escono dai primi piani dei grattacieli e dei decadenti palazzoni residenziali che spesso stanno dietro la facciata degli uffici di lusso.
Abbiamo scoperto con piacere di aver incluso una tappa cinese in questo viaggio, non l'avevamo mica capito. La folla, la lingua, le insegne, il cibo, tutto è cinese. Tutto è da osservare con curiosità. Dopo le settimane australiane, ne abbiamo proprio voglia.
L'immagine da cartolina della città è questa: grattacieli su una baia frastagliata, giochi di luci e modernità.
Ma c'è una sola parola che descrive davvero la città: merce. La merce è dappertutto: nei numerosi e scintillanti centri commerciali, e negli angusti e soffocanti corridoi dei Computer Center fatti di tanti minuscoli box strapieni di qualunque prodotto tecnologico, nelle vie dei quartieri più popolari, nei vicoli decorati da lanterne rosse, nei mercati alimentari, nei palazzi, nelle strade. In alcune zone i venditori vengono a cercarti per strada e semplicemente ti chiedono "Cosa stai cercando?". Perché qui sembra che si possa solo vendere o comprare; non si può stare, camminare, curiosare. Sembra che qui tutti si occupino solo di merce. Ce n'è tanta, ce n'è troppa, c'è tutta quella prodotta dall'intero pianeta a prezzi che fanno sembrare ogni acquisto un affare.
Ne siamo uscite ubriacate, stomacate e, sotto la pressione dei desideri indotti, non siamo riuscite a comprare niente.
Abbiamo pensato spesso a Rapa Nui e siamo state contente di ripartire.
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giovedì 20 marzo 2008
Non dappertutto
Dopo il nostro ultimo post, quello su Uluru e la sua magia, abbiamo sentito solo il silenzio.
Vista da lontano l'Italia sembra un paese con poco futuro davanti. Dall'emisfero sud sembriamo tutti spenti, scontenti e dannatamente sfiduciati. In questo viaggio abbiamo sentito che non è così dappertutto, verrebbe da dire che non è così da nessuna parte.
Forte, fortissimo è il contrasto tra ciò che voi vedete ogni giorno, e quello che abbiamo negli occhi noi.
Qui grandi problemi sociali non ne abbiamo visti. Qui gli operai del cantiere di fronte al nostro albergo lavorano tranquilli, protetti, imbragati, caschetto e scarpe giuste. Qui a Cairns pochi giorni fa hanno eletto il nuovo sindaco e noi non ce ne eravamo neanche accorte, vale a dire: niente manifesti elettorali selvaggi, niente volantini, nè santini, niente faccioni 3x6. Lo abbiamo letto il giorno dopo sul giornale: la nuova sindaca (l'aspetto è molto diverso da quello della Moratti) ha brindato e ha ricevuto gli auguri dell'avversario sconfitto che ora torna alla sua professione in una corporation. Sembra un altro pianeta.
Ma quello che davvero stride è l'abisso che c'è tra la bellezza del paesaggio, l'attenzione che in questa parte dell'Australia hanno nel preservare le ricchezze naturali, e gli scempi che in Italia si compiono da decenni. Qui gli ambientalisti fanno le battaglie per educare le persone a non buttare in spiaggia i mozziconi di sigaretta perché i pesci li scambiano per cibo e si fanno male. Non c'è bisogno di aggiungere altro.
Della nostra tappa a Cairns per vedere la barriera corallina, va detto che, dopo una pioggia tropicale durata alcuni giorni, siamo riuscite a vederla. Certo, il mare era mosso e il cielo era grigio, e solo quando compariva il sole la vita sott'acqua si riaccendeva di colori. Certo, mentre eravamo sulla piattaforma in mezzo al mare, da cui ci si cala in acqua, è arrivato lo scroscione di pioggia, certo abbiamo dovuto indossare la muta anti-meduse perché questa è la loro stagione, ma abbiamo comunque fatto il possibile per non perderci anche questa meraviglia. Ce ne siamo fatte un'idea e abbiamo capito perché in tanti se ne innamorano.
Questa volta le foto sono davvero poche ma, nella speranza di risollevarvi un po' il morale, vi consigliamo di non perdervi le bab in muta.
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giovedì 13 marzo 2008
Ha ragione Pier
Non si può parlare (male) dell'Australia senza aver visto Uluru.
E' come se anche i nativi avessero avuto, fin da tempi antichi, una visione "dall'alto" del loro immenso territorio e lo avessero raccontato, prima con incisioni rupestri e pitture corporali, e poi con le rappresentazioni artistiche più moderne.
Siamo atterrate su una terra rossa con sfumature incerte tra il viola e l'arancio. La ventata di aria bollente che ci ha tolto il fiato, e il nugolo di mosche implacabili, ci hanno subito confermato che eravamo arrivate proprio in uno dei deserti visti dall'alto.
Abbiamo noleggiato una macchina e, superato lo shock della guida a sinistra, siamo andate a Yulara. Yulara non è un paese, è una specie di resort con alberghi e ristoranti. E' stata costruita nel niente, proprio per accogliere i turisti in prossimità del sito più visitato d'Australia.
Della roccia non è facile dire qualcosa oltre quello che si vede. Sembra un enorme animale addormentato. Aspetti quasi che si sollevi e si scrolli di dosso il sottile strato roccioso che i milioni di anni hanno depositato. Nei giorni in cui siamo state a Uluru siamo solo riuscite a chiamarla "la creatura".
Nel Parco Nazionale Uluru-Kata Tjuta (l'altro massiccio roccioso caratterizzata da forme tonde, bello ma meno magico) c'è un Centro Culturale molto ben fatto e gestito dagli Anangu in cooperazione con il Governo Centrale, in cui viene raccontata la cultura della popolazione locale, il loro modo di sopravvivere nel deserto e le storie sacre di Uluru.
Ma non c'è bisogno di nessuna spiegazione sulla sacralità del luogo. E' sufficiente constatare la potenza magnetica che ha su di te. Non riesci a staccargli gli occhi di dosso (e neanche la macchina fotografica). E quando non lo puoi vedere, la sua presenza ineludibile finisce per calamitare anche i pensieri.
"La creatura", quasi a confermare di essere viva, cambia colore ogni momento: dall'arancio abbagliante dell'alba, al rosso mattone del tramonto, passando per il viola bluastro delle ore roventi. Vorresti star lì tutto il giorno a guardarla mutare. Ma il calore secco finisce per avere la meglio e ti impone delle pause.
Uluru ci ha sorprese e turbate, e ha confermato la nostra impressione: l'Australia, prima degli europei, doveva essere un posto magico e incantato. Ora che abbiamo visto battere il suo cuore rosso ne siamo certe.
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domenica 9 marzo 2008
Ngarrangkarni
In queste settimane abbiamo provato a volere un po' bene all'Australia.
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Etichette: Australia
martedì 26 febbraio 2008
Da Blue Mountains a Byron Bay: viaggio in provincia
In realtà si tratta di colline di 500 mt ricoperte di eucalipti che, grazie alla rifrazione della luce e all'umidità, danno il nome a questo altipiano dell'era triassica le cui formazioni rocciose erose dal vento e le alture arrotondate dai millenni ci hanno ricordato gli indimenticalbili paesaggi argentini. Ma questa è l'Australia, e ce l'hanno ricordato le "attrazioni": trenini che attraversano ripidamente la foresta, funivie con il pavimento trasparente per ammirare la sommità degli alberi giganteschi, folle rumorose di giapponesi e coreani in vacanza. Basta però avviarsi in uno dei numerosissimi sentieri per godersi in solitudine la foresta e il continuo vociare degli uccelli. C'è n'è di tutti i tipi e di tutti i versi. Fanno venir voglia di rispondere ai loro richiami, più facili da imitare dei suoni emessi dagli umani a queste latitudini. Ci siamo poi spostate lungo la costa est. I quasi 1000 km da Sydney a Brisbane sono una sequenza di foresta temperata e subtropicale interrotta ogni tanto da campi per il pascolo e piantagioni di mais e attraversati regolarmente da fiumi. Abbiamo percorso questo tratto della costa del New South Wales in bus insieme a decine di giovani turisti (i cosiddetti backpackers) attratti dalle famose spiagge da surf. Abbiamo spezzato il lungo viaggio fermandoci a Newcastle, Coffs Harbour e Byron Bay, le principali cittadine della zona. Questi centri "abitati" ci hanno dato spesso l'impressione di città fantasma. Le case basse, l'assenza di un centro come siamo solite intenderlo, i negozi che alle 17 improrogabilmente chiudono, l'abitudine degli abitanti di muoversi quasi esclusivamente in auto, fanno sì che nell' unica via centrale, fin dal pomeriggio non cammini più nessuno. Ci siamo spesso chieste dove fossero tutti dalle cinque in avanti. Probabilmente nelle loro casette allineate ordinatamente lungo strade pulite e deserte, con il prato davanti, il sentierino, il cancelletto di legno, il patio con la sedia di midollino. Eppure, anche camminando per queste strade, non abbiamo mai visto nessuno entrare e uscire e forte era l'impressione, nonostante le evidenze, che fossero disabitate. In queste cittadine i ritmi sono quelli della provincia, tutto si svolge pacatamente, lentamente. Siamo anni luce dalla rumorosa frenesia della città, qui tutti sembrano avere un passo lento, da vacanza. Quasi troppo perfino per noi, che notoriamente ce le prendiamo comoda. Felix ha commentato: "Ma come vanno lenti!". Una cosa l'abbiamo capita: il venerdì dalle 16,30 sono tutti nei pub. Capita spesso che i pub abbiano camere ai piani superiori, dev'essere una consuetudine che nasce dalla comodità, offerta ai clienti, di potersi fermare lì se non si è più in grado di tornarsene a casa con le proprie gambe. Un venerdì pomeriggio a Newcastle, dal balcone del nostro albergo sopra un pub elegante, abbiamo osservato come il locale si affollava, anche i posti in piedi nel cortile, erano quasi esauriti. Alcuni musicisti si sono alternati fino a mezzanotte e i clienti, di tutti i tipi ed età, si sono succeduti a ondate sempre più rumorose. Dai pub vicini arrivavano altre musiche e simili vocii. Infine le spiagge. Sono effettivamente molto belle, sabbiose, lunghe, quasi per niente popolate, tutte battute da onde costanti e punteggiate da surfisti che sembrano divertirsi un sacco. I nostri timidi bagni si sono svolti a riva, dove l'acqua raggiunge i polpacci, ma dove le onde ti sommergono, facendo sentire tutta loro potenza e la forza quasi irresistibile della risacca.
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martedì 19 febbraio 2008
Sydney
When we arrived at Sydney airport,
L'inglese ci ha proprio preso la mano.
Prima ancora delle notizie da Sydney, vorrete tutti sapere come diavolo ce la stiamo cavando con la lingua; perché qui dove siamo parlano tutti in inglese. E questo lo sapevamo. Ma parlano un inglese molto australiano. E anche questo potevamo immaginarlo. Ma quest'inglese australiano, qui lo parlano impietosamente veloce. E a questo punto, qualunque limite ha la sua pazienza(!).
Dopo aver ripetutamente chiesto, senza alcun risultato, di parlare più lentamente, Anto ha adottato una tecnica che al momento sembra funzionare: parlare molto molto lentamente, quasi sillabando le parole (al diavolo il perfetto accento british). Gli interlocutori allora iniziano a rallentare pure loro. Probabilmente pensano che abbia problemi fonetici o, più ancora, psichici. Ma che importa, l'obiettivo è raggiunto. Questo sistema non funziona con i giovani. I ventenni sono indifferenti e, anche di fronte all'evidenza di non essere stati capiti, riescono a ripetere 4 o 5 volte la stessa frase alla stessa velocità e con la stessa cadenza. Ma avete mai sentito parlare i loro coetanei italiani?
Nei casi più disperati, se l'interlocutore che ha domandato qualcosa di incomprensibile è un addetto alla vendita rispondiamo "No, thank you", se invece ci ha rivolto una domanda cortese in un contesto non commerciale, sorridiamo e diciamo "Yeah".
Felix, invece, ha impiegato quattro giorni per superare la paralisi da shock linguistico. Lei, per non sbagliare, non parlava proprio più, con nessuno, in nessuna lingua. Ora si è ripresa, continua a non parlare in inglese, ma è tornata a sorridere.
Sydney è una bella città, grande e con tante anime: la city, Chinatown, i quartieri ricchi con casette vittoriane, le zone residenziali. E' vivace, un po' frenetica, piena di turisti. Ma la cosa che salta subito all'occhio è la capacità di integrare i resti urbani più antichi, sebbene la città sia molto recente (fondata alla fine del '700 come colonia penale), con il moderno, il modernissimo, senza mai trascurare il fatto che gli spazi urbani sono fatti per essere vissuti.
Sono riusciti a recuperare e a rendere godibili aree tipicamente degradate, come i numerosi ex-porti commerciali. Fa impressione camminare sulla riva di un porticciolo orlato di palme e ristoranti e accorgerti, senza provare fastidio, che sopra di te c'è il cavalcavia di uno snodo autostradale urbano, e più in là un trenino monorotaia che passa su un ponte pedonale e fiancheggia i grattacieli degli uffici. Qui questo scenario ha una sua armonia.
La città si affaccia su una baia con decine di promontori e golfi (qui vi fate un'idea), ci si muove in battello, come in laguna, spesso le abitazioni hanno il loro pontile e le barche a vela sono ormeggiate in ogni insenatura o sfrecciano con le vele sempre gonfie. Qui non abbiamo mai sentito il flap-flap della bonaccia mediterranea che gli amici velisti ben conoscono.
In qualunque punto della baia ti trovi, non puoi evitare di puntare lo sguardo su altre vele, quelle dell'Opera House, una costruzione che a distanza di cinquant'anni dalla sua progettazione, è ancora stupefacente. L'interno, bellissimo e all'avanguardia per l'acustica delle sale da concerto e la funzionalità dei teatri, non regge il confronto con l'emozione di guardare a bocca aperta e naso in su questa sorta di modernissima e laica cattedrale gotica.
La nostra solita caccia all'alloggio anche questa volta è stata funestata da due eventi di portata internazionale: il capodanno cinese che qui, in virtù della grande e integrata comunità, prevede festeggiamenti che durano un mese e richiamano turisti e artisti dalla Cina e non solo; e il più grande festival gay-lesbico del mondo che dura anch'esso un mese intero e, dopo settimane di cinema, teatro, arte e altro ancora, termina con la grande Parade del Mardi Gras. Conclusione: alloggi difficili da trovare e prezzi alle stelle. Soluzione: ci fermiano a Sydney un po' meno di quanto avremmo desiderato e ci perdiamo la spettacolare parata.
A mitigare la delusione, la speranza che lì dove andremo, il clima sia più felice e ci regali qualche giornata di cielo azzurro, dopo sette giorni di nuvoloni, qualche scroscio e fulminee schiarite.
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giovedì 14 febbraio 2008
Il paese dei kiwi
Per 5 giorni siamo state a Auckland.
I giri in città hanno confermato la prima impressione: tutto è pulito, i marciapiedi lucidi, le strade trafficate ma con moderazione, l'arredo urbano immacolato e funzionale. Tutto è esattamente lì dove deve stare per essere utile: le panchine dove ti vuoi sedere, i cestini dove hai bisogno che siano quando vuoi buttare qualcosa, le fontanelle dove hai sete, tu ancora non lo sai, ma l'urbanista ha ragionato per te. Ogni tanto, a uno dei pochi incroci senza semaforo, una scritta sul marciapiede invita a guardare bene la strada, prima di attraversare. I bus sono puntuali, comodi e silenziosi, i passeggeri in fila si avvicinano senza fretta e senza fretta l'autista emette il biglietto per ognuno, prende i soldi, dà il resto, sorride e dice "Thanks!", prima di ripartire, ovviamente senza fretta.
Il porto è tranquillo, silenzioso e affollato quel tanto che basta, l'acqua verde smeraldo, i ristoranti sulla banchina sono eleganti.
Il mercatino delle pulci del sabato sembra sedato, i ristoranti nella galleria commerciale affollati da persone che mangiano sotto luci al neon gialle e blu, il cibo contrassegnato dal sapore dolciastro degli edulcoranti, i tantissimi studenti asiatici, per lo più coreani e vietnamiti, la nuova immigrazione qualificata, sembrano perfettamente integrati nelle abitudini cittadine.
Anche la baia, la cosa più bella di questa città, sembra addomesticata. Frastagliata com'è, con baie, promontori, spiagge, isole, e quartieri residenziali affacciati sull'acqua, dovrebbe essere un bel miscuglione disordinato e invece sembra immobile e immutabile.
Per 5 giorni ci è sembrato di essere nel film "The Truman Show" dove tutto era perfetto, tanto perfetto che in realtà era finto. Auckland a noi è sembrata così. Non ci ha emozionate e ci ha fatto un po' di compassione. Vivere qui deve essere facile, ma noioso da morire.
Il tempo di organizzare l'arrivo a Sydney e siamo ripartite.
Abbiamo così ignorato, senza rimpianti, i consigli di viaggio di Violetta, una maori conosciuta a Rapa Nui, che ci aveva decantato le bellezze naturali di Rotorua e lasciato presagire una Nuova Zelanda vivace e chiacchierona come lei e il suo gruppo. Forse è così fuori dalla città, ma noi non lo sapremo mai. Ci è sembrato di capire che l'offerta di viaggio riguardasse soprattutto l'avventura. Come se i luoghi, anche se belli, non bastassero in sè per essere interessanti, ma valessero per quello che ci si può fare: kayaking, diving, climbing, surfing, biking, zorbing, jumping, rafting, canyoning, sledging, swoop, agrojet. Se non sapete di cosa si tratta, vi consoli sapere che anche noi abbiamo dovuto guardare le figure per capire come funzionassero molte di queste attrazioni da luna-park.
Prima di andar via siamo salite in cima alla Sky Tower, la torre più alta dell'emisfero sud. Solo da qui, da così lontano, ci è sembrato che la città avesse un suo fascino. Ma poi ci è toccato scendere.
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domenica 10 febbraio 2008
Tapati
Durante la settimana in cui siamo state a Rapa Nui, si è inaugurato il Tapati 2008,
Funziona così: ci sono tre ragazze candidate per essere nominate "Reina del Tapati" ma, a differenza dei nostri concorsi di bellezza, qui la vincitrice viene premiata per l'abilità sua, e soprattutto del suo clan, nel mantenere vive le tradizioni Rapa Nui.
Praticamente i membri delle famiglie si sfidano in alcune "competencias" come la pittura corporale (Takona), il racconto di storie e leggende (Rui), la discesa da una collina su zattere fatte con tronchi di banani (Haka Pei) e i balli tipici.
Durante le due settimane della festa, tutto il paese si schiera per una o per l'altra candidata partecipando alle gare e a un gigantesco curanto (una sorta di barbecue tradizionale).
Il Tapati è un modo intelligente per mantenere vive le tradizioni e legare i giovani alle loro radici.
Nei tric e trac c'è una breve sintesi di cosa abbiamo visto.
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Etichette: RapaNui
lunedì 4 febbraio 2008
Rapa Nui
Quando immaginiamo un'isola, almeno a noi due è successo, mettiamo insieme una sequenza di stereotipi. La pensiamo sperduta, isolata, quasi deserta, un po' bruciata dal sole, ventilata e calda, con le scogliere battute fragorosamente dal mare, che è ovviamente di un blu molto intenso, e poi ancora, silenziosa, e con il rumore delle onde in sottofondo, un po' vulcanica e inquietante, ma con una spiaggia di sabbia bianca e palme, con animali selvatici e persone anche, uomini con facce da pirati eppure ospitali.
Quest'isola è un triangolo di terra, il cui lato più lungo misura non più di 25 km, ai vertici tre vulcani che con le loro eruzioni hanno creato l'isola stessa. Dalla loro sommità si riesce a vedere quasi tutta l'isola e il mare che la circonda da ogni lato, oltre ai laghi affollati di canne all'interno dei crateri.
C'è un solo centro abitato, Hanga Roa, dove vivono meno di 4000 persone, il resto è pianura disabitata mossa da tante collinette vulcaniche.
I cavalli sembrano i veri abitanti di questa campagna, ce ne sono dappertutto e sembrano liberi, li vedi pascolare nei campi, lungo le strade, nei cortili delle case. Ogni tanto un uomo li conduce in gruppo, più spesso sembrano conoscere la strada per ritirarsi da soli. Abbiamo visto spesso ragazzi a cavallo per le strade di Hanga Roa; a qualche angolo, ragazzini sul muretto con motorini e cavalli parcheggiati accanto.
Altra presenza costante: i cani che siamo abituate a vedere domestici o randagi, qui semplicemente vivono nel centro abitato, vicini agli esseri umani, ma in autonomia. Seguono chiunque cammini, rincorrono abbaianti le automobili e soprattutto giocano tra di loro.
L'attrazione principale dell'isola sono i moai: grandi sculture scavate direttamente nella roccia alle pendici di uno dei vulcani e trasportate, non si sa bene come, su grandi altari cerimoniali (gli ahu) disseminati lungo la costa. Gli ahu sono a loro volta delle opere d'arte. Sono grandi piattaforme rettangolari su tre livelli; i primi due composti da pietre rotonde allineate a delimitare l'area tabù, il terzo, di massi squadrati e sovrapposti, forma la base su cui venivano issati i moai.
Gli studiosi cercano ancora di capire se i moai fossero omaggi alle divinità ancestrali, monumenti funerari, o espressione di potere delle varie tribù dell'isola, visto che hanno tratti somatici diversi tra loro.
A noi è sembrato che, in un posto così sperduto e lontano da tutto, la funzione di questi grandi bambolotti seri sia di fare compagnia.
In qualunque angolo dell'isola ce n'è uno; avvistarli da lontano, raggiungerli, riconoscerli, è come ritrovare degli amici, ti viene quasi voglia di andare a salutarli.
Ma se si pensa, come noi prima, e come le guide di viaggio lasciano intendere, che Rapa Nui sia solo l'isola dei misteriosi moai, si fa torto a questo puntolino nell'oceano che ha molte altre meraviglie.
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lunedì 28 gennaio 2008
Punto e a capo.
A 5 mesi dalla partenza e pochi giorni prima di lasciare il Sud America, facciamo il punto nave.
Non ci siamo ancora stancate di essere in viaggio. Le cose belle che abbiamo visto in questi mesi hanno sempre rinnovato la nostra voglia di continuare. Certo, ci sono stati momenti meno eccitanti, come i giorni che precedevano le partenze importanti, o quelli immediatamente successivi alle esperienze più emozionanti. Come mai prima, abbiamo sentito sul corpo il potere inconfondibile dell'adrenalina, abbiamo scoperto che è una droga, è così bello l'effetto che ne vuoi ancora e ancora. Sarà per questo che qualche ora prima di ogni nuova partenza, sentiamo che andare è la cosa giusta.
GLI ALBERGHI
In questi mesi siamo state in 45 alberghi diversi. Possiamo davvero dire di averne visti di tutti i colori: quelli di lusso, quelli sfigatelli, quelli che odorano di pessimi detersivi e di spray profumati, quelli spic & span, quelli con moquette dal colore indefinito, quelli con il salottino, quelli in cui non c'è lo spazio per tenere aperte le valigie, quelli con l'angolo cottura, quelli con il bagno cieco e la ventola rumorosa, quelli senza frigo, quelli con viste squallide e quelli con panorami mozzafiato.
In un viaggio così lungo, la camera d'albergo non è mai solo un posto dove dormire, ma il luogo che deve assomigliare un po' a una casa: in cui prepariamo il caffè con l'inseparabile caffettiera da viaggio, in cui talvolta ceniamo, dove sempre facciamo il bucato, dove organizziamo il nostro viaggio e lavoriamo al computer.
All'inizio del viaggio, qualche giorno prima di arrivare e dopo aver letto le guide e sfogliato le foto in internet, prenotavamo una o due notti poi, sul posto, cercavamo soluzioni migliori o più economiche. Man mano che le tappe si susseguivano e si accorciavano, abbiamo capito che era antieconomico dedicare tanto tempo ed energie alla perlustrazione degli alberghi e abbiamo finito per prenotare spesso tutta la durata del soggiorno (mai più lungo di 5 o 6 giorni). Abbiamo anche capito che le descrizioni delle guide e le foto hanno la stessa probabilità di essere veritiere o menzognere. E' solo una questione di fortuna.
LA SALUTE
Eccetto l'episodio dell'intossicazione di Anto, siamo state sempre bene. Nessuna febbre, nessun raffreddore, quasi nessun problema intestinale, nessun mal di schiena. Delle due, Anto è quella che ogni tanto ha sofferto di qualche dolore articolare, come quello alla spalla che persiste da parecchie settimane (dagli esperti on-line, sono graditi consigli). Felix ha mantenuto il suo andamento irregolare riguardo all'orario del risveglio: qualche sveglia all'alba, qualche dormita fino alle 8. Il resto è tutto sotto controllo ;-)
IL BAGAGLIO
Abbiamo continuato, come prima della partenza, ad analizzarlo ad ogni sosta, per vedere cosa si poteva eliminare, cosa rispedire a casa, cosa sostituire. Abbiamo ridotto gli indumenti pesanti, ne abbiamo comprati alcuni più leggeri. Abbiamo abbandonato le guide via via che ci siamo spostate e ne abbiamo comprate di nuove.
In conclusione il peso delle nostre valigie non è diminuito affatto, se possibile è aumentato di qualche etto. Siamo sempre di poco sotto i 20 chili per ogni valigia e il desiderio irrealizzabile di liberarcene del tutto non è mai sparito.
LA LETTURA
Leggere le guide di viaggio è un lavoro necessario. Leggiamo sempre il quotidiano del posto dove siamo: è utile per familiarizzare con la lingua e conoscere il paese e anche divertente perché si scoprono sempre fatti interessanti e curiosità che altrimenti rimarrebbero sconosciute. In Cile e in Argentina ci siamo proprio affezionate ad alcune testate.
Felix sta leggendo un libro in italiano sull'India, ottenuto scambiando una guida dell'Argentina.
Anto sta leggendo un libro di storia della Patagonia in spagnolo, comprato a Ushuaia.
E' quasi impossibile leggere cose che non riguardino i posti dove siamo o dove andremo.
IL CIBO
Mangiare sempre sempre nei ristoranti si sta rivelando pesante. Cerchiamo di alternare i pasti fuori, con cene e pranzi autonomi (yoghurt, panini, crackers e formaggini, frutta). In ogni paese abbiamo apprezzato i piatti locali, ma alla lunga la monotonia della cucina, e i condimenti spesso indigesti, hanno pesato sulla nostra resistenza e sulla sensibilità del nostro stomaco. Ogni volta che l'alloggio ce l'ha permesso, abbiamo cucinato il riso e preparato insalate.
Ecco i ricordi migliori.
BRASILE. La frutta, l'açai e il guaranà (frullati cremosi di frutti amazzonici).
PERU. La sopa de pollo, il rocoto relleno (peperone ripieno), il cebiche (pesce crudo marinato nel limone), la trucha frita (trota fritta), il pisco sour (aperitivo alcolico).
CILE. Il pastel de choclo (tortino di mais e carne) e l'humìta (polenta aromatizzata e cotta in foglie di mais)
ARGENTINA. Il mate, la carne (non sarà originale, ma è davvero buona): il bife de lomo, il bife de chorizo, il cordero patagonico (agnello alla brace) e il gelato di Freddo.
COSA CI E' MANCATO DI PIU'
Le verdure e gli ortaggi cotti, che abbiamo trovato raramente. Il nostro pane integrale. I massaggi di Elvio. Ad Anto il suo letto. A Felix l'olio buono e il suo guardaroba. A entrambe i nipoti, nonostante i frequenti collegamenti via webcam.
IL POSTO PIU' BELLO
Non ve lo possiamo dire, perché non sapremmo sceglierlo. E il viaggio è ancora lungo.
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giovedì 24 gennaio 2008
Argentina
Lasciare l'Argentina già con la nostalgia è una cosa che ci fa sentire un po' stupide.
Ricordiamo ancora
Non riusciamo a toglierci dagli occhi gli spazi immensi così poco popolati; la maestosità dei paesaggi; la natura inospitale della Patagonia poco adatta all'uomo; ogni zona, una geografia a sè, unica e completamente diversa dalle altre; la storia di questo paese così epica e tragica; la forza vitale delle persone e il loro desiderio di guardare avanti che vorremmo ci contagiasse tutti; la luce; il niente; e i colori, i colori, i colori.
In Argentina non vale la pena girare per visitare le città, come eravamo solite fare. Qui le tracce umane (eccetto per la Capitale) non sono interessanti, troppo recenti e troppo diverse dalla nostra concezione di centro urbano, possono essere solo tappe utili per conoscere la vera meraviglia del paese: la natura.
Siamo contente di aver dedicato tanto tempo all'Argentina. Prima di arrivarci ci aspettavamo un luogo familiare, già un po' noto. Ma, se il paesaggio umano assomiglia alle nostre aspettative, quelli naturali sono stati una sorpresa. Qui, se anche ci fossimo fermate 6 mesi, avremmo avuto ancora cose nuove da scoprire, luoghi belli da vedere.
Nella malinconia di questo saluto, ci consola un po' sapere che torneremo, per rivedere i posti che ci hanno incantate e le zone che questa volta abbiamo tralasciato.
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sabato 19 gennaio 2008
Tierra del Fuego
A Ushuaia ci siamo capitate per caso.
Ma quando due ragazzi catalani, giovani, simpatici che, come noi avevano amato i paesaggi dell'Argentina del nord-ovest, ci hanno consigliato di non perdere Ushuaia e il bellissimo Parque Nacional Tierra del Fuego, abbiamo cambiato i nostri programmi. Ci siamo fatte un po' prendere la mano dall'idea che la luce, quanto più si è a sud, tanto più è speciale, e ci siamo venute.
Effettivamente la luce qui è tanto forte da durare fin quasi a mezzanotte e riuscire a oltrepassare le nuvole grigie e spesse, sempre in movimento per il vento forte.
La cittadina, vista da lontano, sembra anche carina. E' una striscia di casette basse rivestite di lamiera colorata, stretta tra il mare del Canale di Beagle,
le montagne ancora un po' innevate e un cielo cupo che nei giorni del nostro soggiorno è sempre stato tumultuoso. Ogni tanto il sole si crea un varco tra le nubi e tutto risplende, ma sono attimi. Il canale di Beagle, che sembra un lago, è diviso a metà da una linea immaginaria che limita il confine con il Cile. Le isole al di là del canale sono cilene, disabitate eccetto il piccolo villaggio di Puerto Williams. Navigare nel canale, a parte l'eco darwiniana, non è stato emozionante, forse per il vento freddo, forse per il cielo scuro. La terra è più suggestiva, con moderazione. Sono belle le torbiere su cui c'è una specie di erbetta rossa e marrone, belli gli alberi grandi e grigi e con le foglie piccoline, bella l'erba che sembra muschio tanto è bassa e attaccata al suolo. Il parco è troppo perfetto e sembra l'Alto Adige, non la fine del mondo.
Questa terra non ci è sembrata Argentina. L'Argentina forse finisce sullo stretto di Magellano, più a Nord del canale di Beagle, che separare il continente dalla Terra del Fuoco, un agglomerato di isole grandi e piccole.
A Ushuaia ci siamo sentite stordite. Forse la luce qui è davvero speciale e c'è fino a tardi, o forse a stare a testa in giù per tanto tempo "la capa gira", o la vicinanza all'Artartide, che qui ha fatto sentire tutto il suo fascino tentatore, ci ha scom-bussolate. Fatto sta che anche noi ci sentivamo strane come gli abitanti di Ushuaia che abbiamo visto spesso, per strada, parlare da soli, cantare, fischiare.
Come Chatwin, che ha scritto di viaggi e di Patagonia, e di cui sono più famosi i titoli che i libri, ognuna di noi, in qualche posto di questa Patagonia e a Ushuaia in particolare, tutti i giorni, si è chiesta "Che ci faccio qui".
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lunedì 14 gennaio 2008
Nel blu
Quando si placa il vento, il ghiacciaio crepita,
Poi un'esplosione più sorda e profonda, come l'eco di uno sparo, annuncia che un altro blocco di ghiaccio, da qualche parte, è sul punto di staccarsi e precipitare fragorosamente nelle acque del Lago Argentino.
E' come se il ghiacciao così immobile, eppure così sonoramente vivace, avesse una vita occulta, che a noi non è dato vedere, ma solo sentire; e questo crea una specie di inquietudine.
Qui siamo come spettatori al cinema che ascoltano la radio. Affacciati alla balaustra guardiamo un film fatto di un solo fotogramma, ascoltiamo e aspettiamo. Quando il ghiaccio, cadendo, solleva una nuvola e crea un'onda nell'acqua, esclamiamo, esultiamo e speriamo che si ripeta presto.
Oltre al Perito Moreno, nel corso di un'escursione in barca, abbiamo visto anche il ghiacciaio Upsala, ancora più ampio, che si era rotto da pochi giorni e aveva disseminato i suoi iceberg (i témpanos) per tutto il Brazo Norte del lago; lo Spegazzini, ancora più alto, e un paio di ghiacciai minori affacciati su un lago affollato di piccoli ghiaccetti.
Dei colori non diciamo niente. Ve li lasciamo scoprire dalle fotografie. Ricordate, come i fotografi tra voi sanno, che fotografare il ghiaccio è difficile a causa dei riflessi e del bagliore, quindi quello che vedete dà solo un'idea dei colori che gli occhi hanno visto.
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martedì 8 gennaio 2008
Volare
Da Comodoro Rivadavia a El Calafate ci siamo spostate con un volo della LADE, Líneas Aéreas del Estado, la piccola e ormai unica compagnia aerea argentina sopravvissuta all'era menemista della svendita selvaggia dei beni dello stato (vi ricorda qualcosa?).
Poi, a una fermata intermedia nel minuscolo aeroporto di Perito Moreno (non il ghiacciaio, ma il paese), sono saliti insieme a noi, che intanto eravamo scese con i piloti per andare in bagno, altri tre passeggeri. Avremmo dovuto poi fare un ulteriore scalo a Gobernador Gregores, ma l'aereo, come fosse stato un bus di linea, non si è fermato, forse per il forte vento, forse perché non c'erano altri passeggeri.
L'arrivo a El Calafate è stato annunciato dal colore del Lago Argentino; sembrava che qualcuno ci avesse spremuto dentro il celeste del tubetto delle tempere, tanto il colore dell'acqua era denso e squillante, verrebbe da dire, argentino.
La steppa patagonica vista dal cielo è noiosa quasi come da terra. Colpisce l'assenza dell'uomo. Il paesaggio offre poco: alcune geometrie stradali, letti di fiumi prosciugati, qualche estancia nel nulla, crateri lunari e pozze d'acqua dai colori improbabili.
Insieme alla maestosità dei paesaggi, questi colori si stanno rivelando la vera sorpresa del nostro giro in Argentina. Non eravamo preparate a vederne così tanti in natura, e tanto diversi da quelli conosciuti.
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mercoledì 2 gennaio 2008
Abbiamo visto la luce
Nella Patagonia che abbiamo percorso finora, quella del nord, non c'è niente da vedere.
Non ci sono alberi, solo i cespugli spinosi resistono all'assenza di pioggia e al vento costante. Ci sono gli animali selvatici: maras, guanachi, choiques, ci sono gli elefanti marini che si cuociono al sole e ogni tanto emettono un barrito, sembrano salsicce giganti in cottura su una graticola.
Ci sono i pinguini con la loro camminata irresistibile.
Poi ci sono nuvole basse e sempre in movimento. A Puerto Madryn c'è anche una bella spiaggia e il mare è di un azzurro-blu che ricorda la Grecia e forse è più bello, certamente più gelido.
E poi tramonti niente male: da un lato le nuvole incendiate, dall'altro un colore mai visto. Abbiamo deciso che è indaco e siamo certe di non poter essere smentite; d'altro canto, chi ha mai visto l'indaco? Il cielo diventa arancione e celeste, poi verde, rosa e altri colori che elencarli tutti...
Qui fa buio tra le nove e mezza e le dieci, e dal 30 dicembre con l'ora legale, tra le dieci e mezza e le undici.
Insomma, quello che stiamo vedendo in Patagonia ci sta piacendo moltissimo, così tanto che quasi non vorremmo dirlo per non farvi troppo male.
Ma più di tutto ci è piaciuta l'essenza stessa del vedere.
E' come se qualcuno avesse acceso la luce in una stanza prima in penombra; possiamo dire che davvero ora sì, ogni cosa è illuminata. Si distinguono i dettagli, anche quelli lontani; i colori sono così' definiti che si riesce perfino a nominarli; le nuvole sono vive, come se si potesse allungare la mano e prenderne una; e l'orizzonte, ampio e circolare, è finalmente nitido e marcato. Per due miopi come noi, è una specie di miracolo.
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